Gian Luigi Bonardi

BENTORNATI "CAMPERISTI"
di Gian Luigi Bonardi


Dedicato a Piero e Cinzia, Vitto e Nirvana, Gian Luigi e Ludovica con Perry e Pepita, Elio e Franca, Rodolfo e Donatella, Enzo e Gina, Giovanni e Marisa, Lele e Pina, Pino e Alfonsina, Claudio e Daniela, Roberto e Licia, Pino e Adriana con Carlo, Pippo e Marzia con Greta, Beppe e Biancamaria con Alberto e Francesco, Giancarlo e Rachelina, Gianfranco e Donatella, Gilberto e Carla con Marco, Lucio e Rita, Claudio e Claudia con Vinicio e Maria, Franco e Carolina, Pier e Nevea, Maura e Roberto, che hanno intrapreso la “Grandavventura 1 dal Don al Mar Nero”, sulle orme dell’A.R.M.I.R. e dei Cosacchi, tra cippi e spiagge con le nostre casette a quattro ruote.
E dedicato a papà, che mi ha accompagnato nel ricordo offrendomi la traccia per il viaggio nella memoria dei nostri cari Alpini.


PER ASPERA AD ASTRA
Ciao, papà,
come hai potuto osservare abbiamo portato a termine questo nostro percorso della memoria, e mi piacerebbe molto poterti raccontare di persona le mie impressioni, le conferme, le sorprese, le commozioni, i commenti.
Oggi, 3 settembre, sarebbe stato il tuo compleanno; da allora sono trascorsi ben sessantadue anni, e mancherebbe solo qualche giorno al famoso 8 settembre di quel tempo, quando gli “amici” Tedeschi ti hanno prelevato di forza, internandoti a Czestochowa in Polonia. Altro argomento quello, ma ne riparleremo. Per ora accontentiamoci di colloquiare a distanza.
Tu sai dove sono, io non so dove sei, ma ho la presunzione di immaginare che mi vuoi ascoltare.
Un primo pensiero monopolizza la mia concentrazione, mentre ripasso mentalmente le numerose letture sull’argomento “ritirata di Russia”: quella degli Alpini fu vera gloria? E “a che serve riparlarne?” Non tutti sicuramente la pensano allo stesso modo, e non tutti apprezzano che si rinnovi l’argomento. Certamente la situazione politica del tempo ha illuso numerosi ed illustrissimi Italiani. Molti infatti hanno optato per la convenienza di un intervento bellico che avrebbe potuto recare frutto alla Patria, e favori al futuro tavolo della pace, dopo la “inequivocabile” vittoria. Ma non si può vincere una partita di ping pong usando uno stuzzicadenti invece di una racchetta. Ecco che già ci sono le premesse per ritenere che alla base del reclutamento vi fossero le ragioni per adottare per buona parte un metodo costrittivo, con poca buona pace per i “dissidenti” soggetti alla leva obbligatoria. Allora perché la maggior parte dei militari era volontaria? Volontari, si, forse per ragioni non ben ancora chiarite a noi posteri, ma proviamo a supporne almeno due. La prima ragione potrebbe essere legata a motivi economici: “vieni che ti dò la paghetta, e, a vittoria conseguita, potresti ottenere da reduce una discreta sistemazione”. Bisogno di sistemarsi l’avevano quasi tutti i giovani del tempo. La seconda ragione, più nobile, potrebbe essere riferita all’affetto che i giovani mostravano per valori come la Patria, la Famiglia, la Fede, basati sulla convinzione che l’Autorità costituita fosse la prima vera garanzia per una vita ordinata ed efficiente all’interno della quale potevano fiorire, come in un’alcova protetta, l’amore per i propri famigliari e la fede in un Dio buono e riconoscente, che tutto sa perdonare e comprendere, che sa infondere prudenza, speranza, giustizia, fortezza, temperanza. In quel misto di ordine e qualunquismo, di fede e di patriottismo, la società si attendeva di crescere puntando sui grandi progetti socio economici, che avrebbero dovuto sortire in un futuro “inequivocabilmente” migliore. Per ottenere tutto questo era necessario non perdere il passo rispetto a chi stava ponendo in caldo una imponente torta, alla faccia degli altri, e nel forno scemavano vite necessarie a tener viva la fiamma. Per non perdere una fetta di quella torta, occorreva fare qualche cosa, la Patria aveva bisogno di sublimi sacrifici, occorreva dar fondo ad ogni risorsa, anche all’oro delle fedi nuziali. Per la necessaria difesa della fetta di torta i nostri volontari, e non volontari, vennero inquadrati, vennero loro consegnate divise ed equipaggiamento, vennero armati ed inviati al fronte. Ma l’inquadramento non era stato sottoposto a sufficiente addestramento. Le divise, “carine” a detta delle nostre nonne ancora viventi, erano adatte a parate militari e a film propagandistici, più che a combattimenti in situazioni abnormi. E l’equipaggiamento? E le armi? Ho letto che non ve n’erano abbastanza neanche al momento dell’arruolamento, e già la prima paghetta se ne andava per l’acquisto di qualcosa di più efficiente del fucile di ordinanza, avanzo della prima guerra mondiale. Armiamoci e partite! I generali non erano d’accordo, i politici non erano d’accordo, il popolo, non era in grado di sapere e rispondeva alla propaganda con baldanzosa assuefazione e temeraria sottomissione. La ragion di stato ha prevalso. Francia, Albania, Grecia, Russia, Africa, migliaia di giovani vite vendute alla ragione della guerra, come se la guerra avesse davvero una ragion d’essere. E i nostri Alpini, dirottati dalla direzione verso il Caucaso, vennero inviati, loro malgrado, sul Don, a contenere forze nemiche preponderanti, pronte, in attesa dell’inverno e del congelamento del fiume, in attesa di dilagare, subendo e provocando massacri e terrore. Pochi o nulli i rinforzi. Contro gli Alpini, oltre al nemico, hanno tramato la pioggia di Grecia, il fango, la neve ed il ghiaccio dell’Unione Sovietica. Che fare? Che pensare?
Caro papà, so che ci è voluto tanto, ma troppo coraggio. In Ucraina già avevi scoperto che il “popolo nemico” non era poi così diverso dagli Italianski: aveva sentimenti simili, era propenso ad aiutare ed a farsi aiutare, familiarizzava facilmente e condivideva il senso di stupore per quella strana guerra che poneva di fronte ideologie diverse ma uomini tanto simili nel modo di parlare, cantare, sorridere, abbracciare, piangere, confidarsi. Anche per il nemico la guerra era soprattutto una questione di obbedienza e sottomissione a superiori esigenze patriottiche. In Russia avevi avuto la conferma della inutilità della guerra, che non fa vincere l’Uomo, ma la sola preponderanza e modernità dei mezzi di sterminio come i T 34 e le katiusce. Che pensare? No, pensare troppo non era concesso; la segretezza di certe operazioni era necessaria, quella di altre era il risultato del completo annullamento di mezzi di comunicazione. E quella necessità ha prodotto solo confusione, e tu, come tanti altri ufficiali, hai dovuto assumerti le responsabilità dei Superiori in decisioni immediate. Dal tuo diario si legge il percorso geografico del tuo Valchiese, e ti mostri fieramente orgoglioso delle vittorie conseguite dalla Tridentina. Ma non compare con molta evidenza quale forza misteriosa ti ha spinto ad essere, con la tua Compagnia, insieme al caro tuo amico Giorgio Gaza, tanto coraggioso da esporti fin dall’inizio, quasi sempre all’avanguardia, e con tanta fortuna. Solo più tardi, nel diario di prigionia, ho creduto di trovare la risposta al quesito. Essere al fronte senza notizie dall’Italia e dal resto del mondo, senza ricevere rinforzi o aiuti via terra o via cielo, senza avere più precisi ordini da eseguire, faceva perdere automaticamente la fiducia nel felice conseguimento dell’impresa. Erano forse venuti meno quel “credere, obbedire e combattere” che avevano infiammato i cuori dei più animosi? Forse sì, ma allora che si doveva fare? Che si poteva pensare? Sul fare non c’era dubbio: cercare di guadagnare al più presto la via del ritorno, portando con sé quanti più compagni possibile. Sul che cosa pensare era impresa più difficile. La cosa migliore era cercare in sé stessi i motivi che potevano legittimare la decisione di sfondare le linee nemiche per ottenere le vie della salvezza, oltre la sacca. Alcuni non trovarono ragioni sufficienti, e consumarono il loro coraggio con un ultimo disperato gesto. Altri, perduta ogni speranza di salvezza, si sono offerti lentamente alla morte per congelamento. Per fortuna molti altri, risparmiati dalla fame, dalla dissenteria, dall’assideramento, dalle cannonate dei T 34 o dallo schiacciamento sotto i loro cingoli, dai colpi di fucile, di katiuscia e di mortaio, dalle pallottole delle mitragliatrici, dal coltello e dalla baionetta del nemico, hanno riscoperto in sé le ragioni di un coraggio più illuminato, quel coraggio che nel catechismo era ed è ancora definito Fortezza, una virtù e un dono dello Spirito. La disperazione e l’istinto di conservazione hanno certamente completato il quadro psicologico. Anche tu, come tanti altri, hai allora forse invocato con la preghiera, insieme al tuo amico don Pierino, sufficiente forza interiore per far prevalere sul male facile il bene difficile. Così ti sei riscoperto capace di lealtà, assetato di giustizia, di speranza, di saggezza, d’amore, di fede nella possibilità di costruire un futuro di certezze e di pace, ed hai voluto difendere quei valori, sapendo che comunque la tua esistenza era necessaria per tè stesso, per tua moglie, per i tuoi figli, per i tuoi genitori, per i tuoi compagni ed amici, per la tua Patria. Il vero coraggio degli Alpini, la Fortezza, quel coraggio mirato e consapevole, li ha resi, al momento opportuno, capaci di azioni al limite del possibile, capaci di sentirsi Uomini fino in fondo, non importa con quali pregi o con quali difetti, ma Uomini veri, degni del più sacro rispetto. Fu dunque vera gloria, papà, la vostra, ed il nostro “viaggio della memoria”, almeno per questa riscoperta e conferma di un valore unico ed insostituibile, vale la pena, credo, di non essere dimenticato. Avevi ragione papà: “per aspera ad astra”, la lezione mi ha coinvolto, terrò presente anche in futuro.

QUEL BREVE PEZZETTO DI MEMORIA
Sto osservando, dalla finestra sul balcone di casa mia, un merlo, che ha afferrato con le zampette malferme l’ultimo rametto della grande pianta che sovrasta il crocevia, e da esperto funambolo si destreggia tra le numerose foglioline che tremano al soffio discreto del vento, mostrando rapidi sprazzi di luce riflessa nel verde del loro fruscio. Uno spicchio di cielo terso e una nuvola bianca, a forma di tartaruga, completano la scena verso l’alto di questo pomeriggio inoltrato.
Guardando verso il basso posso vedere frettolosi passanti, auto in sosta, fili elettrici, strade, marciapiedi, l’edicola, la signorina con il setter al guinzaglio, le sei strade convergenti verso il semaforo, i tavolini del bar sottostante. Ebbene si, è proprio vero, qui da noi si gode la natura solo a spicchi, guardando verso l’alto, e nel ristretto scenario si cercano istantanee curiose e ci si spinge verso il cielo, alla ricerca di fruscii e di silenzi lontani, almeno finchè non passi la filovia o non risuoni l’ambulanza, o il rombare monotono delle auto ferme al semaforo non preannunci l’arrivo in abbondanza di gas tossici contro i ben chiusi doppi serramenti. Il merlo comunque se n’è andato, forse inseguendo la luminosità che va scemando, oltre le case di fronte, inseguendo il sole che cala in un orizzonte che da qui non si è mai visto. Ma noi sappiamo che l’orizzonte è laggiù, verso occidente e ancora più in là, oltre il mare, oltre i monti e le pianure, più in là ancora: attraversa l’altro emisfero fino a raggiungere di nuovo il nostro oriente e risalire, lentamente, così da rendere noi orizzonte per altri, poi ancora avanti, il giorno si ripete, e passano altri giorni, mesi, anni.
Questa potrebbe essere la vera storia del tempo, e nel tempo appunto c’è tanta storia, così come negli orizzonti ci sono tanti spazi che si vestono d’ombra e di luce con precisa alternanza e si concedono alla nostra fantasia per suggestivi viaggi nell’ignoto, e alla nostra conoscenza, per altrettanto suggestivi viaggi nella memoria. Chissà da dove è venuto quello scanzonato merlo, e dove sarà diretto? Avrei voluto che mi concedesse più tempo, almeno il tempo di scambiare due parole ed un fischio sui nostri orizzonti raggiunti e oltrepassati nell’estate appena trascorsa, e scoprire che il nostro potrebbe non essere stato solo un casuale incontro, ma un inconsapevole ritrovarci.
Domani, senza riconoscerci, potremmo forse ancora casualmente incontrarci da qualche altra parte, in altro tempo e spazio. Ancora una volta non ci sarà il tempo della memoria, né quello dei saluti “da uomo ad uomo”. Vola, amico merlo, vola sulle tue strade d’aria, col soffio del vento, ineccepibile professionista del turismo; guarda laggiù i palazzi, i campanili, le cupole dorate, le punte affilate degli abeti, le macchie gialle dei girasoli; insegui le grandi cicogne che planano in piccole alcove su tralicci e camini, fermati al campo di mais per lo spuntino e non meravigliarti se, proprio lì vicino, hai visto passare in fila casette a quattro ruote, su strade dissestate, fra carretti ed oche. Allora forse anche tu, amico merlo, sei divenuto protagonista d’una foto, d’un saluto e d’un breve pezzetto di memoria. Il rifiorire del ricordo raccoglie i miei pensieri fino a quel momento impegnati nel volo pindarico, e li riconduce repentinamente sulla mia scrivania di casa, riversandoli nel computer. Questa è la conferma più probante del nostro ritorno, ora rimane il tempo di ricostruire l’avventura, ripercorrere gli orizzonti, riordinare abbracci, sorrisi, commozioni.

LA GRANDA MELA
Ventidue equipaggi, singolarmente o a gruppi di due, di tre, anche di cinque e forse più, provenendo da città e paesi della nostra Italia, (penisola ed isole comprese), hanno percorso itinerari differenti, per giungere a Medyca, il primo grande appuntamento per scambiare abbracci e saluti, presso il confine polacco/ucraino. “La Granda” aveva così adempiuto al primo proposito di riunire gli “spicchi” dell’intero “frutto” che ha partecipato alla “Grandavventura 1 dal Don al Mar Nero”.
Quando un camper lascia il proprio rimessaggio o comunque qualsiasi proprio luogo di “riposo” per la partenza verso una nuova meta, è assoggettato ad una serie di operazioni che comprendono: pulizia radicale, riassetto, controllo delle sue varie componenti meccaniche, elettriche, idrauliche, svuotamento e riempimento. Il camper viene tenuto gelosamente all’oscuro, dall’equipaggio, sulle intenzioni che riguardano la nuova avventura, ma ogni volta è necessario che si trovi in perfetta forma, pronto ad assuefarsi senza problemi ad ogni comando del proprio guidatore e ad ogni suggerimento del relativo navigatore. Solitamente il compito di provvedere alle necessità del “mezzo” vengono assunte dall’”uomo di famiglia”, mentre la componente femminile dell’equipaggio si arroga ( e per fortuna) il compito di ripulire gli interni, svuotare i cassetti e i mobiletti dei loro trascorsi “contenuti” e ripristinare l’ordine delle necessità di vestiario, di pulizia, di toilette e di culinaria. Il gavone, o il garage, possono essere fonte di discordia in un equipaggio anche ben equilibrato, soprattutto quando si tratta di scegliere come “farcirlo”. Lui vorrebbe inserire porta attrezzi, bottiglie di vino e di liquore, computer, fili elettrici, corde, tiranti, ganci, e possibilmente: una tanica di carburante, contenitori di olio da motore e di acqua per raffreddare il radiatore. Lei più semplicemente vorrebbe inserire: catini, secchi, stendibiancheria, riserve di detersivi, acque minerali, ricambi di asciugamani e vestiari da post-doccia, prodotti per l’igiene del bagno e dell’acqua grigia, scottex, carta igienica e tanti, tanti scatoloni vuoti pronti ad ingoiare souvenirs e probabili altri acquisti del futuro viaggio. Non sembra far discutere invece, sempre che lo spazio ci sia, la scelta di inserire nel garage biciclette e gonfiabici, o, in alternativa, un efficiente scooter menomato di parabrezza, con tanto di guanti, giacconi, caschi e bloster. Altra scelta che non guasta gli umori: il tavolino con relative seggioline e, perché no, poltroncine o sdraio rilasanti, magari con ombrellino anti sole.
La partenza per una estiva “Grandavventura” comporta una speciale cura nel riempire concordemente il gavone o il garage di pasta, latte, vino, acqua minerale e scatolame vario. Si può non rinunciare alle biciclette, sempre spazio permettendo, ma conviene rinunciare allo scooter e suoi accessori. E’ appunto dopo questo tipo di preparazione che anche il nostro equipaggio (Ludovica, il sottoscritto ed i cagnetti Perry e Pepita) ha iniziato il proprio percorso verso il Don, previo accertamento che non mancassero i necessari documenti di viaggio (patenti, carte d’identità, polizze assicurative, autorizzazioni a condurre il camper, visti, inviti, permessi, passaporti (per i cani oltre al passaporto (si fa per dire: personale) era necessario anche il certificato veterinario di buona salute).
Per l’occasione non è stata dimenticata una piccola biblioteca di racconti storici sulla seconda guerra mondiale ed in particolare sulla “ritirata di Russia”, pronti per essere distribuiti ai volontari lettori desiderosi di approfondire argomenti utili alla prima parte del nostro viaggio, quello dedicato alla memoria dei nostri Alpini e di quanti altri parteciparono all’epica lotta.
Via quindi verso Brescia, a raggiungere l’equipaggio di Pina ed Elio (vero nome di Lele, tenutoci segreto quasi fino al termine del viaggio) e l’equipaggio di Giovanni e Marisa. Con loro abbiamo proseguito oltre Tarvisio verso Austria, Slovacchia e Polonia, fino appunto a Medyca, raggiunta il 3 agosto con un po’ di ritardo. Quella che in seguito ci è piaciuto definire la “Granda mela” si è definitivamente composta presso il confine fra Polonia e Ucraina con l’arrivo dell’ultimo spicchio: l’equipaggio di Giuseppe, Biancamaria, Alberto e Francesco, proveniente dalla incantevole Sicilia, che con nostra sorpresa e soddisfazione ci offriva, con Giuseppe, l’unico ed insostituibile “medico di bordo”. A Medyca dunque ha avuto inizio formalmente la “Grandavventura 1 dal Don al Mar Nero”, e ad ogni spicchio della “Granda mela” è stato attribuito il “numero di colonna”: dal 1 (capicolonna: Piero e Cinzia) al 22 (codacolonna: Roberto e Maura).

RADICI
Dopo aver vistitato Kiev, superata Poltava e la frontiera ucraino/russa a Karkiv, siamo giunti sul “territorio della memoria” a Belogoroje e a Rossosh. Nikolajewka era vicina, le voci, nei baracchini, esigevano serietà, ed ogni battuta spiritosa venniva sospesa, o scivolava nel silenzio.
Il primo scopo del nostro viaggio, come proposto e voluto, ha ricevuto attenzione e rispetto unanimi, salvo rarissime, incolpevoli eccezioni.
Condurre le nostre ruote gommate sui territori che furono teatro delle ultime battaglie nei pressi del Don, delle quali sono stati protagonisti i nostri Alpini, ha subito confermato l’interesse dei partecipanti. Attraverso i baracchini rimbalzavano domande e risposte sulla composizione dell’A.R.M.I.R, sulla dislocazione delle nostre truppe e degli altri contingenti, sulle direzioni prese durante la ritirata e sui luoghi che sono stati oggetto delle battaglie più cruente. Pino Danese, il più esperto in materia, documenti alla mano, era puntualmente pronto ad offrire ragguagli sui nomi delle località, sulla composizione dello C.S.I.R. (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), compresi nomi di generali ed ufficiali del nostro Corpo d’Armata, delle Divisioni, dei Battaglioni, delle Compagnie, dei Plotoni. La distinzione fra una penna bianca ed una penna nera era solo uno dei chiarimenti richiesti, insieme a tanti altri particolari su episodi conosciuti e tramandati in testimonianze scritte ed orali.
Dalle nostre comode e calde casette potevamo osservare “dal vivo” gli interminabili campi di girasole, le balche che luccicavano tra pioggia e sole, la strada ferrata, i gruppi di piante verdeggianti che nascondevano paesini composti di piccole casette ad uno o massimo due piani, e i tanti sgabelli di vendita di prodotti agricoli, dislocati ai lati della strada e presidiati da intere famiglie: nonni, genitori, figli, nipotini, cani, torelli ed oche compresi. Suggestione delle letture? Ritorno alla mente di racconti di papà che credevo non uditi o dimenticati? Ho ipotizzato, insieme a molti altri, come potevano essere state quelle distese in pieno inverno, a quaranta sotto zero, sopraffatte dalla neve e dal ghiaccio. Abbiamo immaginato di osservare sulla bianca, infinita distesa l’interminabile serpentone grigio nero di Alpini, con i loro muli superstiti, gli slittini trascinati a stento, i carretti prestati dai paesani ricolmi di feriti e i tanti, tanti sbandati al seguito. L’immagine riproduceva le mie letture fatte sull’argomento, ed il serpentone avanzava lentamente, senza rumore, in senso contrario al nostro, quasi che volesse avere come riferimento la nostra stessa strada, a lato della ferrovia. L’immagine avrebbe potuto riguardare un giorno di poco antecedente il 31 gennaio 1943, quando papà con i tanti altri, in marcia da Nikolajewka, era diretto a Bolske Troshoje, dove quel “fiume di pellicce spelacchiate.!” avrebbe ricevuto “i primi soccorsi, le prime strette di mano, i primi elogi”.
La fantasia, quando si fa prepotente, suggerisce poi fatti ed episodi che possono considerarsi “al limite della realtà”. Così mi piace supporre che in quei luoghi, a combattere il freddo e la fame e a difendermi dal nemico, ci fossi già stato anch’io, se non altro nelle intenzioni e nei desideri di papà, fin da allora sostenuto dalla speranza in un futuro migliore che comprendeva l’idea di una famiglia numerosa, per la quale il sottoscritto aveva forse già avanzato la propria candidatura a partecipare. Ecco che allora il mio sentimento legato all’approfondimento della memoria storica si è fatto più insistente e più esigente. Forse proprio in quelle “radici” sta il segreto di una voglia di esserci che assomiglia ad un ritorno su luoghi già noti per riflettere, verificare, commentare.


UN ASILO PER LA PACE
L’importanza strategica di Rossosh durante la seconda guerra mondiale, è un dato ampiamente riconosciuto e confermato dalla storia. Conquistata dai Tedeschi, che ne fecero baluardo per la preventivata offensiva sul Don soggiornandovi nella prima fase bellica, la città venne poi consegnata agli Italiani, che ne fecero la sede del loro comando militare, finchè non dovettero restituirla ai Russi, in modo, come sappiamo, non certo indolore. Ma che impressione fa oggi al turista italiano questa città “eroica”, che in molte vie e piazze fa bella mostra di carri armati, katiusce, monumenti esaltanti la potenza bellica? Lascio ad altri il compito di approfondire l’argomento. Personalmente mi limito ad osservare che quei “simboli”, probabilmente i resti di un retaggio politico-culturale che va fortunatamente attenuandosi, non producono sicuramente l’effetto di educare la popolazione a sentimenti di pace e di condivisione, ma l’effetto di propagandare il significato che forza, potenza e invincibilità siano ancora oggi valori da difendere, per un bene comune che, al contrario, rischia di essere di fatto il bene del più forte, potente e invincibile.
Più accettabile è invece la “memoria” degli eroi raffigurati nella grande piazza con effigi monumentali, allineati a semicerchio, certamente meritevoli del nostro rispetto e della nostra preghiera. L’affermazione della nostra propensione per il perdono, la pace, lo sviluppo, la concordia tra i popoli (proposito anche del nostro viaggio), ci fa guardare comunque con estrema simpatia il popolo Russo, incapace di ostilità sleale verso gli Italiani, anche nei momenti più “crudi” della guerra. Quel sentimento è reciprocamente condiviso dai due popoli, unanimi nel dare giudizi non altrettanto benevoli nei confronti dei nostri ex alleati germanici. “Mai più guerra”, come dice l’amico Mario Rigoni Stern, come ripetiamo noi, come si augura il simpatico prof. Morosov, che con tanto entusiasmo e commozione ci ha guidato all’interno dell’Asilo, costruito dagli Alpini per i bimbi Russi, come segno di pace e di amicizia. Il sorriso dei tre piccoli bimbi biondi, ospiti dell’asilo, che agitavano le manine nel tipico gesto di saluto è un ricordo che vale più di tante parole. All’interno delle stanze adibite a museo, poste sotto le aule e il refettorio, ho esaminato con commozione tutti i documenti, le fotografie dei caduti Italiani, dei prigionieri, dei vivi e gli oggetti a ricordo dei tristi giorni di guerra. Invano ho cercato di riconoscere fra i gagliardetti quello del “Valchiese”; ho dovuto accontentarmi di quello del “Gruppo Alpini di Brescia” e di quello della “Tridentina”. L’effetto della visita è stato comunque toccante, e penso che chi ha avuto un parente, un amico o un conoscente protagonista di quella tragedia, ha certo più di altri potuto ascoltare e comprendere, facendosi accompagnare dal professore sul sentiero della “memoria”, fino a quel giorno di visita. Di quella memoria ora anche noi, con la nostra presenza e con la consegna del nostro gagliardetto, facciamo parte. L’intervista televisiva richiestami a sorpresa poco dopo mi ha trovato emozionato ed impacciato. Avrei preferito che la telecamera riprendesse tutti noi uniti in un grande cerchio, con i piccoli ospiti dell’asilo, ma il desiderio non era realizzabile. Nei giardini prospicienti l’asilo il nostro voler essere insieme ci ha visti invece allineati con le nostre bandiere davanti al monumento eretto dagli Alpini raffigurante il fatidico cappello con penna, segno di concreta riconoscenza.

MAI PIU’ GUERRA!
Caro papà,
come hai potuto leggere fino ad ora, il nostro “viaggio della memoria” non sembra essere stato inutile, e tu sai quanto sia importante oggi affermare con decisione “Mai più guerra!”. Lo ribadisce l’amico Mario Rigoni Stern, lo conferma il prof. Morosov, lo sanno tuo fratello Gianni Bonardi, i tuoi amici Peppino Prisco e Giorgio Gaza, il tuo cappellano don Pierino, i nostri conoscenti Iacoviello Giuseppe, disperso, Carion Guerrino, zio di Vitto, fante della Cosseria, il generale Mario Odasso dello Stato Maggiore, il soldato Moreschi Giacomo, superstite lasciatosi quasi morire per assideramento e salvato da un compagno di Bergamo; e ancora l’artigliere Dino Marenco, papà di Piero, della Ravenna, e altri nomi noti come don Gnocchi e Guareschi, lo scrittore di “Don Camillo e Peppone”. “Mai più guerra” scrivono anche tutti gli autori dei libri della piccola biblioteca storica della Granda, da me approntata per l’occasione, in memoria della tua “biblioteca da campo” che allestivi appena possibile.
Chi ha sperimentato sulla propria pelle una guerra, certamente sa quanto essa sia inutile. Così anche tu lo sai, ed avevi capito che i tuoi Alpini avevano bisogno di non pensare solo a come uccidere o farsi uccidere; solo a resistere alla minaccia del freddo; solo ad essere prepotenti o a farsi suggestionare da suggerimenti tipo “boia chi molla”. All’occasione, da buon consigliere e stratega, eri capace di tirar fuori un mazzo di carte, o una sigaretta, o fogli congelati di enigmistica, e ti arrogavi il compito di “distrarre la truppa” insegnando bridge, o allestendo uno spettacolino comico-drammatico, o improvvisandoti maestro di coro, o proponendo ed organizzando i più disparati tornei fisici ed intellettuali. Ne abbiamo avuto testimonianza da tanti reduci. Ciò nonostante, per corrispondere al richiamo della sopravvivenza tua e degli altri, con il coraggio della tua fortezza ti sei personalmente esposto, per essere esempio, come era dovere per ogni ufficiale, partecipando alle operazioni più rischiose, delle quali sono testimonianza le croci di guerra d’Albania e la medaglia di bronzo di Russia che hai portato fino a casa, attraverso la ritirata. Ecco, siamo passati per i luoghi delle tue battaglie e ad ogni nome di località, che cercavo di decifrare traducendone la scritta dal cirillico, ho trovato un ricordo che ti appartiene, e che ora appartiene anche a tutti noi, che abbiamo avuto l’occasione di leggere il tuo preciso e circostanziato diario.
Datscha, Andrejewca, Podgornoje, Opit, Repjewka, Postojalyi, Novo Kalitva, Novo Charkowka (Charkowskaja), Krauzowka, Sheljakino, Varwarowka, Nikitowka, Arnautowo, Terenkina, Alexandrowka, Nowo Dimitrowka.
Alcune località le abbiamo raggiunte e oltrepassate; di altre abbiamo solo notato i cartelli stradali con la direzione e la distanza; nelle più importanti abbiamo sostato, per offrire al sacrificio di ogni combattente, caduto o sopravvissuto, con riguardo particolare per gli Italiani, ma senza distinzioni di nazionalità, momenti di silenzio, di affetto, di lettura, di canto e di preghiera.
A Livenka (Nikolajewka) abbiamo improvvisato la cerimonia più toccante, deponendo, ai piedi del cippo eretto dai Russi che ricorda i caduti Italiani della seconda guerra mondiale, i simboli della vostra lotta contro la fame ed il freddo: pane, vino, ghiaccio e calzerotti, oltre all’omaggio di un mazzo di fiori tricolori a ricordo della nostra e vostra Patria.
La famiglia Odasso ha sfoggiato due cappelli d’Alpino ed un gagliardetto, adempiendo ad una promessa. Nell’unanime, quasi religioso silenzio del nostro ascolto Ludovica ha regalato il dolce e commovente canto “Centomila gavette di ghiaccio”, e sono sicuro che tu, papà, eri presente nel suo cuore ad ispirarne la voce che si disperdeva nel verde circostante fino a raggiungere, sospinta da un impercettibile coro, le balche che si ergevano all’orizzonte. Brevi cerimonie anche a Pavlosk, con la lettura del brano del sottoscritto “Livenka, voci senza nome” e il ripetuto canto di Ludovica, nonché a Kasinka, con omaggio di fiori al cippo rappresentante lo stivale d’Italia.
Il nostro “viaggio della memoria” potrebbe concludersi qui, con il ricordo del terrapieno di Nikolajewka impraticabile per il fango, il sorriso di alcuni ragazzi venuti ad osservarci e a chiedersi il perché di tanto interesse per un sottopasso di ferrovia.
Lì accanto ci osservava spaventato un piccolo torello incatenato.
Di lì a poco una nutrita mandria di mucche sarebbe passata presso i nostri camper, sollevando un polverone irrespirabile.
Forse anche questa volta Livenka vuole allontanarci a suo modo, così come a suo modo ci ha accolto, con la sbarra del passaggio a livello chiusa, quasi volesse chiederci, prima di entrare, un minuto di silenzio.