FOIBE, 10 FEBBRAIO: UNA DATA DA NON DIMENTICARE
Lettera scritta da Stefano Foggetti e Marcello Ventura
"10 febbraio, data in cui ricorre il Giorno del Ricordo, una data che permette ad un Paese che per decenni ha nascosto parte della sua Storia di ricollocare con la giusta e doverosa importanza i fatti accaduti durante e dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale al nostro confine orientale. Fatti colpevolmente e deliberatamente oscurati in virtù della peggior politica, quella dell’interesse di parte, dell’equilibrismo, del ritorno sopra tutto e tutti. Una politica che ha lasciato al suo destino migliaia di connazionali, cittadini che non hanno voluto rinunciare alla loro italianità indifferentemente dal loro schieramento ideologico. 350.000 esuli istriani, fiumani e dalmati che hanno dovuto abbandonare non solo le loro case, ma la loro vita, i loro padri, la loro storia. Tutto quello che per secoli ha rappresentato la loro naturale culla di vita.
Un data da non dimenticare, perché per 60 anni questo è stato quello che si è cercato di fare.
Finalmente ci è stata data l’occasione per rimediare, per correggere un errore gravissimo che pesa sulla Storia della nostra Repubblica. Educare le giovani generazioni al ricordo di quello che è accaduto. Insegnare loro la Storia di quei popoli, le loro tradizioni, culture, dialetti, storie. Favorire gli incontri di chi quei tragici momenti li ha vissuti, di modo da poter tramandare le loro testimonianze e farle sopravvivere al Tempo.
Una data importante e da non dimenticare."
PREFAZIONE
di Vitto Carion
Con la Legge N. 92 del 30 marzo 2004 la Repubblica Italiana ha istituito il "Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale" e ha concesso "un riconoscimento ai congiunti degli infoibati".
Scopo del riconoscimento del Giorno del Ricordo è quello di "conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale" (articolo 1, comma 1).
La terribile pagina di storia a cui fa riferimento il Giorno del Ricordo è quella che interessò i territori dell'Istria a partire dall'autunno del '43, subito dopo l'armistizio, fino al 1947, dove furono rastrellate, deportate e uccise migliaia di persone, per lo più italiani, dai partigiani e dall'esercito di Tito.
L'inizio dell'eccidio risale al '43, subito dopo l'armistizio, nell'Istria abbandonata dai soldati italiani e non ancora controllata dai tedeschi, quando i partigiani slavi gettarono nelle foibe (fosse rocciose profonde fino a 200 metri) centinaia di cittadini italiani considerati "nemici del popolo".
Ma fu nel 1945, durante i quaranta giorni dell'occupazione jugoslava - dall'ingresso di Tito, il 1 maggio, fino all'arrivo delle truppe anglo americane a metà giugno - che la carneficina delle foibe raggiunse il suo apice.
Lo sterminio fu condotto senza distinzioni politiche, razziali ed economiche, seguendo le direttive di Tito che ordinava di eliminare i fautori del nazionalismo. Furono arrestati fascisti, anti-fascisti e partigiani, cattolici ed ebrei, uomini, donne, vecchi e bambini, industriali, agricoltori, pescatori, poliziotti e carabinieri, militari e civili, secondo un disegno che prevedeva l'epurazione attraverso torture, fucilazioni e infoibamenti della componente italiana della popolazione.
La persecuzione, soprattutto in quella "terra di nessuno" vicina al confine sottoposta all'amministrazione jugoslava, la violenza e l'efferatezza delle esecuzioni, precedute spesso da processi sommari torture e linciaggi, determinarono l'esodo che nel dopoguerra allontanò quasi tutta la popolazione italiana dall'Istria (si parla di circa 220.000/250.000 persone).
Ancora oggi, dopo circa sessant'anni, non ci sono cifre ufficiali relative ai deportati, agli italiani uccisi durante la prigionia e, soprattutto, agli infoibati scomparsi tra l’autunno del '43 e la primavera del '45 e oltre. Non sono, però, gli zeri in più o in meno a ridurre la portata di questa tragedia, di cui è importante conoscere le cause e le dinamiche per evitare che in futuro qualunque essere umano si possa ritrovare protagonista, vittima o carnefice, di una storia di simile persecuzione.
Il 10 febbraio è un giorno per ricordare, per raccontare senza polemiche, per capire e condividere la memoria dopo anni di assordante silenzio.
Il Camper Club "La Granda" Italia desidera, in questa circostanza, portare il suo contributo per ricordare, per elaborare la memoria e renderla condivisa, pubblicando una “testimonianza” redatta dal Dott. Marco Carion di Bolzano, figlio di Socia e profuga giuliano-dalmata.
Inoltre Il Camper Club "La Granda" Italia ha realizzato, dal 4 al 20 maggio 2007, un tour che si è snodato lungo i territori che sono stati testimoni di questi importanti fatti storici e che ha avuto per tema …
Alla scoperta delle origini italiane dell’Istria e della Dalmazia!
QUARNARO, ISTRIA E DALMAZIA: L’ITALIA DIMENTICATA
del Dott. Marco Carion
“Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che ti specchi nell’onde
del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quell’isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque
cantò fatali ed il diverso esiglio,
per cui, bello di fama e di sventura,
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.”
Così nel 1803 il grande poeta Ugo Foscolo pubblicando, a Milano, una versione riveduta delle sue Poesie apparse l’anno precedente sul “Nuovo Giornale dei letterati”, descrive nel celeberrimo Sonetto “A Zacinto”, il proprio sentimento di esule: un sentimento molto intimo, profondo e carico di tristezza dato dal non poter più rivedere la terra natia, “le sacre sponde” da cui è stato costretto a fuggire, dal non poter più contemplare la bellezza della sua isola che si specchia nelle onde di quel mare che non è un semplice specchio d’acqua ma, come cantavano Omero e Teocrito, il luogo incantato “da cui vergine nacque Venere”.
Solo chi è stato strappato alle proprie radici, solo chi ha dovuto abbandonare le proprie origini, la propria casa e la propria storia può veramente intendere la profonda sofferenza e tristezza dell’esilio ma soprattutto, solo un esule sa quale immenso dolore sia il non poter mai più ritornare a casa, il non poter riposare in eterno tra le calde ed accoglienti braccia della terra genitrice a cui non resta che accontentarsi del canto di un figlio perché “a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”.
Questi versi presi in prestito da un delle più belle pagine della letteratura Italiana nonché Europea, descrivono in pieno, ciò che è stato l’esodo dei profughi giuliano dalmati, descrivono soprattutto quale sia stato l’animo dell’esule, quali le sue sofferenze e quanta la sua tristezza nel dover abbandonare così, da un giorno all’altro, per scelte altrui, la propria casa, la propria vita, quelle poche cose che giorno dopo giorno si era riusciti a costruire.
Il sottoscritto è sicuramente troppo giovane per dare spiegazioni, giudizi o sventagliare verità storiche più o meno oggettive sull’argomento, ma per due ragioni molto diverse tra di loro si trova in una posizione “fortunata” (il virgolettato rende l’idea della fortuna …) e si è preso l’onere e l’onore (in verità molto più onore che onere) di tentare di raccontare, a chi ancora non la conoscesse, la storia di una piccola parte d’Italia in terra straniera. La mie fortune stanno in primo luogo nell’essere un appassionato di storia e soprattutto di studio della storia, di quelle metodologie cioè che portano ad uno studio sistematico, specialistico ed approfondito degli avvenimenti storici basato su fonti certe, dati incontrovertibili e … una laurea in storia; mentre la mia seconda “fortuna” sta nell’essere figlio e nipote di profughi giuliano dalmati, figlio e nipote di esuli, figlio e nipote di persone che con un mitra alla tempia hanno dovuto decidere nel giro di pochissime ore di abbandonare tutto ed andarsene verso un qualcosa che non c’era.
Il viaggio “Istria e Dalmazia: alla ricerca delle radici italiane” organizzato dal Camper Club "La Granda" Italia vuole andare a scoprire luoghi intrisi di storia e di storie, luoghi che da sempre sono al centro di feroci polemiche, battaglie e sanguinose guerre ma che da tempo immemorabile sono considerati come un secondo paradiso terrestre, per la bellezza delle coste, l’infinta quantità di piccole grandi isole, i verdi e rigogliosi boschi della zona settentrionale e che , non per caso, vennero scelti dagli imperatori romani, dai loro discendenti bizantini, dai turchi, dai dogi veneziani, dagli imperatori austrungarici e dai più eminenti italiani come luoghi di idilliaca e beata residenza.
L’appartenenza al mondo latino sia dell’Istria che della Dalmazia è un dato storicamente certo ed ampliamente documentato: la colonizzazione romana di queste terre avviene intorno al II° a.C. con la fondazione della città di Aquileia (Forum Julii) e successivamente con la nascita della X° Regio Venetia et Histria, colonia di diritto latino con il compito di proteggere l’Impero dalle invasioni dei popoli orientali. Sin da subito tale provincia gode di una forte indipendenza, e nel 56 d.C. la X° Regio stipula un patto difensivo con Roma e da quel momento tutti gli appartenenti a questa provincia vengono insigniti del privilegio di cittadini dell’Impero Romano, pur mantenendo il proprio governo autonomo ed indipendente. In Dalmazia la penetrazione romana è quasi contemporanea tanto che nel 180 a.C. Polibio cita già il popolo dalmata come appartenente alla sfera latina. Nel 156 a.C. Roma conquista la zona dell’Illiricum (odierni balcani e ungheria), e dopo un periodo di scontri ed assestamenti, nel 10 d.C. sotto il regno di Augusto la provincia viene divisa in due zone, la Pannonia a nord e la Dalmatia a sud, in cui la cultura e lingua latina rappresentano le basi sociali e culturali dei popoli.
La caduta dell’Impero Romano nel 476 d.C. e le conseguenti invasioni dei popoli barbari provenienti per la maggior parte dalle zone orientali dell’odierna Europa, non portarono a grandi sconvolgimenti sociali e culturali nella penisola istriana che strenuamente difese la propria radice latina e non permise l’accesso nel proprio territorio alle tribù d’origine slava (solo nel X°/XI° alcuni minuscoli gruppi di etnia non latina si insediarono nella penisola).
In Dalmazia invece le spinte della tribù Avara di origine slava, portò la popolazione a lasciare l’entroterra agli invasori e a spingersi sempre più verso le coste e le isole raccogliendosi in città fortificate come Zara, Spalato e Ragusa. Sino a circa agli inizi del XII° sec. la Dalmazia restò sotto la protezione dell’impero bizantino, per poi passare di mano varie volte tra Venezia e l’Ungheria.
Più omogenea fu invece la gestione del potere in Istria dove a partire dall’anno 800 d.C. per quasi 1000 anni, sino al 1797 questo restò nelle mani dei Dogi Veneziani. Dopo la sovranità Veneziana in Istria arrivarono gli austriaci che vi regnarono per 121 anni (Pola divenne il più importante scalo marittimo della marina austrungarica) cedendo, alla fine della prima guerra mondiale con il trattato di Versailles la zona della Venezia Giulia all’Italia. Il trattato venne completato da altri due: quello di Rapallo del 1920 che assegna all’Italia le città di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa; e quello di Roma del 1924 che assegna la città di Fiume all’Italia. Nell’arco di tempo di reggenza austriaca troviamo l’eroico e celeberrimo tentativo del Vate Gabriele D’annunzio e dei suoi legionari di ridare Fiume all’Italia (o sarebbe meglio dire di ridare l’Italia a Fiume) che, all’urlo di “O Fiume O Morte” si impadronirono della città con un’azione di forza il 12 settembre 1919, dichiarandola libera dalla giurisdizione austriaca.
Da questa seppur brevissima introduzione storica è molto facile vedere come le “radici Italiane” che vogliamo ricercare in questo viaggio non siano solamente un’invenzione dell’irredentismo così come un certo tipo di storia, o meglio di politica, ha voluto far credere, ma 670 anni di dominazione Romana e 980 di dominazione Veneziana in Istria; 1100 anni di impero Romano prima e Bizantino poi, unito da quasi 500 anni di potere dei Dogi Veneziani in Dalmazia, fanno si che le radici di queste due “Provincie” siano da sempre estremamente, saldamente ed indissolubilmente legate alla cultura, storia e tradizione della penisola Italica e, in un secondo momento, della nazione Italiana.
Se da un lato rendersi conto di una tale radice comune tra l’Italia e questi territori è solamente una pura formalità logico-storica, dall’altro, ed è quello che a noi più interessa, ci può forse aiutare a comprendere meglio quello che è accaduto “di recente” cioè 60 anni fa, può aiutare ognuno di noi nell’edificazione di quella coscienza storica che dovrebbe far parte del bagaglio culturale di qualsiasi persona, perché solo tramite questa coscienza saremo in grado di comprendere ciò che è avvenuto, tenendoci distanti dalle fuorvianti e raccapriccianti logiche politiche e di partito che per decenni hanno fatto sì che tale argomento fosse uno dei più grandi tabù della storia italiana contemporanea.
Ma … cos’è stato l’esodo dei profughi giuliano dalmati? Chi sono questi esuli? Perché se ne sono andati dalla loro terra? Perché non se n’è parlato, o meglio se n’è parlato molto poco, male e a sproposito? Bene a queste domande sono molto poche le persone in Italia che sappiano o, attenzione, VOGLIANO, dare un risposta!
L’esodo della popolazione giulano dalmata è cronologicamente collocabile all’incirca tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, periodo in cui alla frontiera orientale d’Italia circa 250.000 (le cifre di questo esodo, come vedremo in seguito, sono logicamente suscettibili delle più disparate interpretazioni e manipolazioni a seconda del credo politico di chi ha condotto l’indagine) persone, in massima parte italiane, dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza, vale a dire le città di Fiume, Zara, le isole del Quarnaro e tutta l’Istria, passate sotto il controllo jugoslavo gestito dal maresciallo J. Tito.
All’indomani dell’8 settembre 1943 nei territori precedentemente assegnati all’Italia si intrecciarono due ordini di avvenimenti che si accavallarono l’uno all’altro influendo in maniera più che rilevante sullo sviluppo futuro di queste regioni: da un lato i proclami di annessione alla Jugoslavia lanciati dal CPL (Comitato Popolare di Liberazione) dell’Istria, dallo ZAVNOH (Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia) e dall’AVNOJ (Consiglio antifascista popolare di liberazione della Jugoslavia); e dall’altro da una durissima ondata di vendette e violenze a danno di qualsiasi cosa o persona che fosse italiana. Questa ondata di violenza anti-italiana è stata più volte interpretata e, a volte giustificata, come vendetta per i torti e le violenze subite dai croati, dagli sloveni (e in parte dai serbi) durante il ventennio fascista e che quindi, basandosi sull’idea che “sei Italiano? Allora sei fascista!” si sono arrogati il diritto di farsi giustizia da soli.
Ora, a bocce ferme, possiamo anche dire che l’equazione ITALIANO=FASCISTA non sia poi così falsa, anzi possa essere presa per vera nella maggior parte dei casi ma, dall’altro lato, bisogna essere storicamente onesti e rendersi conto del fatto che al tempo, il non essere fascisti, per lo meno ufficialmente, non era contemplato, o eri con il regime o eri contro, ed essere contro significava morte certa o vita da fuggiasco. Probabilmente il tessuto sociale e culturale di quegli anni non era pronto per simili ragionamenti, la vendetta la fece da padrona e il quadro degli eventi che l’analisi storica ci offre a partire dall’autunno del 1943 è articolato in logiche composte da “giustizionalismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e faide paesane oltre ad un disegno di sradicamento del potere italiano – attraverso la decimazione e l’intimidazione della classe dirigente – come precondizione per spianare la via a un contropotere partigiano che si presentasse in primo luogo come vendicatore dei torti, individuali e storici, subiti dai croati dell’Istria.” (R. PUPO, Il lungo esodo, 2006 p.75). In tutta l’Istria e Dalmazia si scatenò una vera e propria “caccia all’italiano” in cui il movimento di liberazione italiano (in gran parte partigiani della prima ora scappati dalla dittatura nazista instauratasi in Italia dopo l’8 settembre, ansiosi di vendicare torti subiti altrove) ed elementi nazionalisti croati, si fecero trovare pronti di fronte all’occasione offerta loro dalla dissoluzione dell’apparato statale italiano di una vera e propria “resa dei conti”. Se tutto questo da un lato può in un certo qual modo essere non giustificato ma compreso come “un atto di ribellione e di sfogo in seguito ad una pressione a lungo accumulata e che trova rapidamente una via di sfogo” (G. VALDEVIT, Foibe: l’eredità della sconfitta, in Foibe: il peso del Passato, 1997, p. 20), dall’altro la storiografia moderna e la cultura moderna si ritrovano concordi nel dire che a violenza non si deve mai rispondere con altra violenza e che quella perpetrata ai danni della popolazione italiana in Istria e Dalmazia è stata una vera e propria opera di “pulizia etnica”.
Molto particolare fu l’esodo degli Zaratini, gli abitanti di Zara, che iniziò già nel settembre del 1942 spinti dalla paura che procurava la vicinanza del fronte partigiano e dalle voci circa la ferocia anti-italiana che l’avanzata sovietico-slava portava con sé. La città di Zara, perla della Dalamazia venne poi ripetutamente ed inspiegabilmente attaccata dalle truppe alleate che tra il 2 novembre 1943 e il 31 ottobre 1944 la bombardarono dal cielo per ben 54 volte uccidendo 2000 dei 22.000 abitanti e radendo al suolo il 40% delle abitazioni (delle restanti, più del 90% era inagibile), trasformandola così in una città fantasma, abbandonata e rasa al suolo. I pochissimi che rimasero in città (si parla di non più di 1000 anime) dovettero sopportare anche le violenze che accompagnarono la presa del potere jugoslava, e venne ufficialmente impedito loro di lasciare Zara mentre, qualche mese prima nel maggio del 1944, anche l’ultimo piroscafo che collegava Zara a Trieste veniva affondato nei pressi dell’isola di Lussinpiccolo.
La rabbia e la ferocia di questa vendetta anti italiana costrinse quindi decine e centinaia di migliaia di italiani a lasciare le proprie terre d’origine, a lasciare la propria casa (a volte anche qualche componente della famiglia), le proprie attività e i propri beni personali per “scappare”, per correre verso quella che speravano fosse la madre patria pronta ad accoglierli e che invece, purtroppo, si rivelò ingrata e tutt’altro che ospitale.
Ciò che più fa impressione è il come ciò si accaduto: persone, famiglie intere, giovani, anziani donne e bambini si sono trovati a dover decidere del futuro proprio e delle proprie famiglie nel giro di qualche giorno, con l’incubo di essere uccisi da un momento all’altro, di sparire dietro all’angolo di un palazzo per un’imboscata, per il tradimento di un vicino invidioso o ansioso di farsi giustizia secondo un proprio codice, con la certezza in quei casi di non ritornare mai più. Spesso e volentieri queste decisioni, a differenza di quanto purtroppo per decenni in Italia si è creduto, sono state prese con un mitragliatore puntato alla tempia o con l’acre odore di saliva di uno sputo dei partigiani e dei militanti croati che colava lungo il viso o, peggio ancora, mentre si assisteva all’esecuzione dei propri cari.
Le persone che “esodarono” furono secondo stime scientifiche all’incirca 250.000. C’è una parte di letteratura storica che parla di 300.000 o addirittura 350.000 profughi, ma uno dei censimenti più attendibili quello di Colella, parla di cifre che variano dai 220.000 ai 250.000 e sono queste le cifre su cui gli storici tendono a basarsi. Purtroppo il balletto delle cifre, dei numeri, per anni l’ha fatta da padrone e continua ad essere motivo di grandi discussioni ed accuse reciproche, ma credo che una società come la nostra che si ritiene civile e democratica avrebbe dovuto scandalizzarsi ed indignarsi anche per uno, un solo esule o un solo infoibato, poco importa quanti siano stati 100, 1000 o 100.000, ciò che importa è che questi numeri rappresentano persone, vite umane che nel migliore dei casi sono state completamente distrutte e rivoluzionate, vite che sono state messe in gioco, a tavolino, dagli allora potenti della terra che non curanti di quello che potesse succedere tracciavano confini in base ad imprecisate teorie linguistiche, etniche o geografiche, senza mai nemmeno guardare quale fosse la reale situazione di chi quei luoghi li viveva.
Pur essendo l’Istria, la Dalmazia e i Balcani in generale terre abituate a grandi cambiamenti, abituate a spostamenti massicci di intere popolazioni, la particolarità dell’esodo giuliano dalmata (l’uso della locuzione esodo, nella storiografia, non è casuale ed è in riferimento al grande esodo biblico)sta nel fatto che a sparire fu pressoché l’intera componente nazionale italiana residente nei territori passati alla Jugoslavia, costituendo un momento di fortissima cesura storica nella zona dell’alto adriatico in quanto con la partenza della popolazione italiana, l’Istria e la Dalmazia vennero completamente decapitate sia politicamente (la quasi totalità delle cariche pubbliche, degli uffici pubblici e di tutte le istituzioni necessarie al funzionamento di una società, erano in mano alla componente italiana della popolazione) che umanamente dato che a esodare furono in maggioranza persone semplici, operai e piccoli commercianti.
Questo tipo di migrazione è quindi completamente nuova, estremamente differente da quelle sino ad ora registrate, anche perché i precedenti flussi migratori avvennero in periodi “non sospetti”, in periodi cioè pre-nazionali in cui era praticamente impossibile connotare politicamente il mutare dell’equilibrio tra la componente slava e quella di tradizione latina, dato che non era ancora stato elaborato quel concetto di “Nazione” e di appartenenza ad una nazione che nascerà solo con il romanticismo. Ciò che quindi impressiona di più dell’esodo delle popolazioni giuliano dalmate è che questo riguardò in toto una componente sociale che si definiva su base nazionale e proprio per questo motivo costretta ad abbandonare la propria terra che venne, immediatamente, a sua volta sottoposta ad un difficilissimo processo di rinazionalizzazione alternativa.
Famiglie intere sono state sradicate dalla propria terra, a forza, senza nessuna possibilità di scelta veniva consegnato loro un foglio di carta, della durata di una settimana, che dava la possibilità di emigrare “dietro propria richiesta” come recita il quasi offensivo lasciapassare su cui venivano stampigliate più stelle rosse possibili, su cui la lingua italiana passava in secondo piano mentre la parola Jugoslavia prendeva il sopravvento su tutto, e che terminava con un inquietante ma altamente grottesco MORTE AL FASCISMO = LIBERTÀ AI POPOLI.
Questo voleva dire essere profughi, esuli, voleva dire sopportare i soprusi degli invasori pur essendo in casa propria, voleva dire morire per la semplice colpa di essere italiani. E a morire furono molti, tanti troppi per le strade, in città, nelle campagne, sulle montagne e una parte considerevole in quel vergognoso capitolo storico che sono le foibe. Per sessant’anni in Italia e nel mondo s’è parlato pochissimo, anzi quasi non si è parlato di foibe, di cosa fossero, di chi ci sia finito dentro e, soprattutto di chi abbia prima pianificato il suo utilizzo e poi utilizzate gettandovici dentro migliaia di persone, di Italiani. Quello delle foibe è stato senza dubbio alcuno uno dei momenti più tristi e più brutti della recente storia italiana, non solo nel momento in cui avvennero i fatti, ma per tutti gli anni di silenzio che sono poi succeduti. Aprire una discussione sulle foibe vorrebbe dire adentrarsi in un terreno assai oscuro e ricco di insidie, in cui troppi hanno parlato e spesso a sproposito. Spesso la storia prende colore, siamo abituati a sentire parlare di storia “rossa” e di storia “nera” e i libri ci raccontano che da che mondo è mondo la storia la fanno i vincitori, ma nel caso di un fatto come quello delle foibe, chi ha il coraggio e la forza di dichiararsi vincitore? Chi ha il coraggio, la forza e la fermezza d’animo di scrivere una storia delle foibe e non lasciarsi trasportare da uno o dall’altro lato? Chi dovrebbe scriverla questa storia, i titini che uno dopo l’altro infoibarono nel solo autunno del 1943, 600 italiani? O gli italiani stessi, quei partigiani dei vari CLN che vedendo nella Jugoslavia di Tito e nel suo governo di stampo filosovietico l’unica risposta possibile alle angherie subite durante il fascismo si unirono agli aguzzini jugoslavi uccidendo e gettando nelle foibe di Basovizza, Monrupino, Opcina, Semich e tante altre ancora, centinaia di fratelli, di propri connazionali in un momento in cui il territorio era già stato conquistato dalle truppe slave e quindi si trovava in fase di occupazione e non più di conquista? La storia delle foibe, per dare giustizia a chi purtroppo vi è finito dentro, ha un suo giusto autore, esiste una persona o un gruppo di persone che se non altro per pietà dei tanti connazionali seviziati, torturati e poi uccisi nelle cavità carsiche avrebbe o avrebbero dovuto raccontare ciò che accadde. Quel libro, quelle memorie sono però rimaste in bianco, gli autori e cioè la classe politica italiana che governò subito dopo la caduta del fascismo, che comandava le varie associazioni partigiane, che aveva in mano la rivolta e i rivoltosi, gli stessi dirigenti di partito che autorizzarono gli spari sulla folla del 5 maggio 1945 a Trieste e lo scempio di piazzale Loreto, gli unici veri e possibili autori di una storia delle foibe … tacquero e anzi avvallarono silenziosamente ciò che stava succedendo, (esistono decine di documenti, di carteggi privati tra i partigiani titini, Tito stesso e i dirigenti del CLN italiano e dei principali partiti che lo componevano, in cui personaggi che in seguito occuperanno alte cariche dello stato italiano danno il via libera all’uccisione di centinaia di italiani, purché, si legge, tutto sia fatto nel massimo riserbo !!!), imponendo poi un assordante silenzio per i successivi 60 e più anni.
In mancanza di una storia che faccia giustizia, naturalmente sempre di giustizia storica si parla, a noi non rimane altro da fare, quando visiteremo le foibe e i luoghi dell’esodo, che portare rispetto per chi oggi non c’è più, portare rispetto per delle persone che hanno voluto essere italiane sino all’ultimo istante, che per l’Italia sono morte e hanno sofferto, che per restare attaccate alle proprie radici hanno sopportato anni di bugie e di silenzi, di campi profughi con le ingiurie e gli sputi dei “fratelli italiani” che al loro arrivo in Italia li berciavano e li insultavano chiamandoli fascisti e traditori e che per anni li hanno emarginati socialmente in veri e propri ghetti come non fossero degni di essere fratelli, di essere italiani. Portiamo quindi rispetto per le persone e per la storia, al di fuori di qualsiasi ideologia politica e di partito, senza dover sempre collocare il rosso contro il nero, gli uni contro gli altri, la violenza ad altra violenza, perché se c’è una cosa che la storia ci insegna è che la morte e la sofferenza non hanno nessun colore.
Ho ascoltato questi racconti più di una volta, in religioso silenzio, cercando di ascoltare non solo con l’udito ma pure con lo sguardo mentre mia nonna, sua sorella e suo fratello, mia madre e mia zia mi raccontavano cosa fosse stato questo esodo, cose volesse dire essere profughi, ed in ognuno di loro ho sentito la loro voce tremare e ho visto i loro occhi inumidirsi quando parlavano di quei giorni, delle loro città, delle difficoltà e della tristezza del dopo.
Ricordo che mia nonna, donna dalle qualità morali altissime che non avrebbe fatto del male neppure ad una mosca, per la quale già la parola “stupido” sembrava una parolaccia e che sempre, ma dico sempre aveva parole buone per tutti, si trasformava al ricordo di ciò che aveva visto con i propri occhi, e ho ancora chiaro nella mia mente il rumore, anzi direi il frastuono del ribollire del sangue nelle sue vene e del suo silenzio quando un giorno le chiesi "Nonna, cosa ricordi dell’esodo e di ciò che avveniva in quei giorni?" e lei, guardandomi fisso con i suoi grandi occhi fattisi di ghiaccio mi immobilizzò con il suo sguardo e non mi disse nulla, mentre alcune lacrime piene di tristezza solcavano il suo viso segnato dalle fatiche di una vita.