La Cronaca del Viaggio

La prima volta de La Granda nei Balcani, un viaggio attraverso Albania, Montenegro, Croazia e Bosnia-Erzegovina, paesi al di là del mare Adriatico ed anche per questo legati all’Italia da sempre. Un confronto stimolante che arricchisce la conoscenza dei nostri vicini di casa.
In questo caldo giorno di agosto 2012 l’avventura inizia a bordo del traghetto Hellenic Spirit in navigazione da Ancona a Igoumenitsa. Veramente la partenza effettiva del tour è avvenuta la sera precedente con un piacevole momento conviviale presso un agriturismo di Recanati, sperduto tra le dolci colline di Giacomo Leopardi. Poi, la mattina successiva, lo spostamento al porto di Ancona per l’imbarco nel primo pomeriggio.
Dopo una notte di navigazione tranquilla si sbarca in terra greca. La direzione è un nuovo valico di frontiera verso la città albanese di Saranda, anziché il percorso più lungo verso Ioannina. La strada litoranea che percorriamo è alquanto stretta, non ha segnaletica ed il manto stradale è a volte buono, a volte così così. Il paesaggio circostante è mare a sinistra e montagne brulle e scoscese a destra. Bisogna fare attenzione alle mucche vaganti e incustodite. Sono di pelo scuro, di taglia piccola e si arrampicano come capre.
Dopo circa un’ora di viaggio siamo alla frontiera greco-albanese, non senza aver prima sbagliato strada ad un bivio (naturalmente mancavano le indicazioni) ed essere tornati indietro. Alla barriera troviamo due costruzioni identiche in mezzo al nulla, una lunga fila di macchine greche e i doganieri albanesi che vanno in tilt al nostro apparire. Oltre le solite pratiche doganali, dobbiamo stipulare un’assicurazione automobilistica per i giorni che trascorreremo in Albania. Luca, rappresentante di “Io viaggio in camper”,  l’agenzia organizzatrice del viaggio e Luciano, il capogruppo, discutono un po’ e riescono ad ottenere uno sconto sulla polizza. Tutto bene, però perdiamo un sacco di tempo perché l’impiegato albanese che deve compilare i documenti si serve di una vecchissima macchina da scrivere e batte i tasti con un dito solo.
Finalmente si riparte. Viaggiando compatti, i quindici camper formiamo una colonna di circa due chilometri che diventa lunghissima quando, tra camper e camper s’infilano auto, camion, furgoni, ecc. ecc. Il percorso fino al parcheggio prenotato è quanto di più vario si possa immaginare. Il fondo stradale è, alternativamente, buono, discreto, a tratti decisamente disastrato. Un bel “divertimento” per gli autisti dei camper costretti a fare lo slalom per evitare le buche.
Nel pomeriggio un pullman ci porta a Syri i Kaltȇr (Occhio blu). Durante il viaggio, la guida che ci accompagna racconta episodi di vita durante il regime comunista e usanze antiche che si rifanno al Canun, un codice d’onore dalle regole molto rigide, ancora attuale in parte, soprattutto nelle zone contadine del nord. Sparsi per la campagna sono visibili dei bunker che risalgono ai tempi della guerra fredda, quando l’Albania temeva di essere invasa dai paesi dell’occidente. Ne ritroveremo ovunque.
Occhio blu è la più grande delle diciotto sorgenti carsiche che danno vita al fiume Bistrica. È inserita in un bell’ambiente boschivo, l’acqua è cristallina e le sabbie e le rocce del fondo danno il caratteristico colore all’acqua. La stranezza di questa sorgente è che non è mai stato possibile accertarne la profondità per la forte pressione dell’acqua che impedisce le immersioni dei sommozzatori.
È domenica, c’è parecchia gente che trascorre qui il pomeriggio. C’è pure una festa di matrimonio  a cui siamo subito invitati a partecipare alle danze. Non sarebbe stato facile arrivarci con un camper. L’ultimo tratto di strada, a doppio senso di circolazione, è sterrato e stretto al punto di consentire a stento il passaggio del pullman e poi non esiste parcheggio.
Si ritorna facendo un giro panoramico attraverso Saranda, città di oltre trentamila abitanti sul mar Jonio, di fronte all’isola di Corfù che si vede come un’ombra al largo. Le case sono sparse sulle pendici aride delle alture che finiscono nel mare; alcune costruzioni sono nuove, altre sono quasi terminate, parecchie altre hanno appena le strutture portanti. Sembrano il ghigno di enormi bocche sdentate. Nei giorni seguenti ci accorgeremo che “bocche” simili fanno parte del normale paesaggio albanese.
Siamo a Butrinto al tramonto. È il momento migliore per visitare il luogo archeologico più importante del paese. Il caldo è scemato, le ombre ed i raggi obliqui del sole calante che s’insinuano tra i rami degli alberi conferiscono al luogo un fascino in più.
Questa città antichissima, i cui resti ci portano indietro “soltanto” al 10° secolo a.C., fu abitata dai Greci che commerciavano con l’isola di Corfù, poi dai Romani che la inserirono nella provincia dell’Illyrium. Nel 3° secolo d.C. fu quasi distrutta da un terremoto, ma si riprese per essere poi saccheggiata dagli Ostrogoti. Fu governata dai Bizantini e, per un breve periodo, dai Bulgari. Fu teatro di scontri tra Angioini e Veneziani; nel 1797 fu ceduta a Napoleone Bonaparte che la tenne per soli due anni, fino alla conquista turca. A quell’epoca, però, la città era già stata abbandonata. Ritornò a vivere nel 1928 quando l’archeologo italiano Luigi Maria Ugolini cominciò gli scavi che portarono alla luce, tra le cose più importanti,  le mura che cingevano la città, un teatro greco, in seguito trasformato in stile romano, il santuario di Esculapio, una vasta basilica romana, successivamente adattata a chiesa cristiana, un battistero del 6° secolo, varie statue che oggi sono esposte nel Museo di Storia Nazionale di Tirana.
Il giorno successivo inizia con una levata antelucana. Si parte alle 7 per Argirocastro. Non è la lunghezza della tappa che ci butta giù dal letto, ma piuttosto la considerazione dello stato delle strade (visto quelle già percorse) che promette di farci perdere un sacco di tempo. Previsione totalmente azzeccata.
La città di Argirocastro, che si trova in una zona abitata in maggioranza da popolazione di lingua greca ed è Patrimonio dell’Unesco come esempio di città ottomana, è arroccata sulla cima di una montagna, ai piedi di una Fortezza militare che domina le case e la valle ed il cui aspetto attuale risale al 1700. La parola greca Argyrokastron significa “castello d’argento” e per arrivarci occorrono scarpe comode e buone gambe, perché la salita attraverso il quartiere storico è abbastanza lunga e ripida, le pietre che lastricano la strada sono scivolose per i miliardi di piedi che le hanno calpestate ed il sole è implacabile. Da lassù, però, il panorama ripaga ampiamente la fatica. Interessante la visita al Museo Nazionale delle armi allestito nelle restaurate gallerie della Fortezza, nella ex prigione e negli spazi esterni. All’esterno si trova pure una struttura in ferro sotto la quale, durante la dittatura di  Enver Hoxha, nativo di Argirocastro, era allestito il palco per la celebrazione del suo compleanno. Ora è usata per un Festival della canzone popolare.
Nel pomeriggio ci spostiamo a Berat, dove parcheggiamo in centro città, in un’area concessa dall’albergo Tomori (i campeggi sono sconosciuti). Non mi soffermo sulla condizione delle strade tra Argirocastro e Berat perché mi ripeterei. Basti dire che quanto già scritto sull’argomento è la norma in tutta l’Albania e non l’eccezione, la qual cosa ha indotto i guidatori a mettere a dura prova la loro abilità.
Valeva la pena tanta fatica ed il lungo giro per arrivare a Berat e poter esclamare: ”Questa è un’altra Albania”. La città è assai diversa da quanto visto finora. Si presenta pulita, attraente, con bei giardini curati sui quali si aprono i “mille occhi” delle finestre di Mangalem, l’antico quartiere ottomano. Aggrappato alla roccia che lo sovrasta, oggi abitato dalla popolazione musulmana, è  Patrimonio dell’Unesco. Di fronte, oltre il fiume, si stende il quartiere cristiano.
Si raggiunge il Castello percorrendo anche qui una strada lastricata di secolari pietre scivolose, ma, come già ad Argirocastro, la meta compensa la fatica. All’imbocco della salita fa bella mostra di sé il Palazzo del Pascià, quindi si attraversa Mangalem con le sue case bianche, le tante finestrelle, i giardinetti, gli angoli graziosi e caratteristici. In cima sta il Castello del 13° secolo, in pratica una cittadella circondata da una doppia cinta muraria. All’interno di essa, sparse nel vasto territorio, rimangono delle costruzioni diventate negozi di souvenir o bar, una chiesa ortodossa con una bella iconostasi, il Museo iconografico Onufri che espone i lavori di questo pittore albanese del 16° secolo ed alcune icone provenienti da chiese albanesi, un Museo Etnografico allestito al pianterreno di una casa tradizionale. Un po’ defilate si trovano due chiesette molto antiche, una delle quali, dedicata a San Nicola, ricca di magnifici affreschi bizantini che rappresentano immagini di Santi. In un altro angolo, addossata alla cinta muraria interna, si ammira una chiesa ortodossa la cui bellezza si gioca in un alternarsi di mattoni bianchi e rossi.
Bel panorama sulla città e i suoi dintorni. Tra la selva di tetti e gli smilzi minareti spicca il bianco di un edificio che sembra la copia ridotta del Campidoglio di Washington. È la sede dell’Università di Berat.
Il muezzin ci sveglia alle quattro e mezza, così siamo tutti puntuali alla partenza (ma lo saremmo stati lo stesso). Continuiamo il cammino verso il nord dell’Albania. Il paesaggio è cambiato. Meno montagne, meno aridità, più coltivazioni, più verde. Lo scenario naturale è migliorato, le case incompiute, invece, ci sono sempre.
La periferia di Durazzo si presenta con case nuove molto colorate. Tutte le gamme e sfumature della tavolozza sono state usate. Malgrado ciò, forse per causa del disordine e del traffico intenso e caotico, nell’aria non si coglie nessun senso di allegria. Attraversare la città (310.499 abitanti - dato del 2010) per andare a posteggiare lungo il mare è un incubo. Il traffico è cresciuto ed è ancora più caotico, nel senso più ampio e peggiore dei termini. Tutti vanno dove e come vogliono, svoltano o attraversano la strada quando gli pare, strombazzano, sorpassano sfiorando gli altri mezzi. Sembra che gli albanesi, tranquilli come pedoni, diventino degli scalmanati al volante. Quando la guida mi dirà che tanti comprano la patente non avrò un attimo di esitazione a crederle. Ai problemi del traffico si aggiunga l’attenzione per non travolgere i bambini che zigzagano in mezzo ai veicoli per chiedere l’elemosina o lavare i parabrezza. Tenere unita la colonna di camper è un’impresa titanica. Si riesce a farlo grazie all’attenzione del capogruppo Luciano, a Luca ed a Sergio (la scopa).
Durazzo, che nasce come colonia greca nel 7° secolo a.C., è una città portuale con vocazione turistica. Infatti è la spiaggia di Tirana, da cui dista una sessantina di chilometri di una strada quasi perfetta. È anche la località albanese più vicina alle coste italiane.
Visitiamo l’anfiteatro greco risalente al 2° secolo a.C. una delle opere più importanti del suo genere nei Balcani, basti pensare che poteva contenere 15.000 spettatori. Si trova nel centro della città ed è stato scoperto casualmente soltanto nel 1966, durante piccoli lavori di scavo in un giardino privato. Proprio questa parola “privato” ha contribuito a nascondere per secoli l’opera. Abbandonato nel medioevo, l’anfiteatro piano piano si riempì di terra ed altro, fino ad essere nascosto dalle case costruite sopra. Anche oggi, oltre metà della sua estensione è ancora sepolta, perché prima di iniziare altri scavi bisogna che il governo trovi una sistemazione agli abitanti delle case soprastanti. Nella parte visitabile si può vedere una cappella scavata nella roccia. È di epoca medievale ed è decorata da un mosaico colorato di stile bizantino, molto ben conservato.
Nel pomeriggio ha luogo la parte umanitaria del viaggio: la consegna di materiale vario all’orfanotrofio Durres di Shkozet, una cittadina tra Durazzo e Tirana. Abbiamo un incontro con la direttrice di una istituzione suddivisa in tre edifici diversi e distanti. Possiamo soltanto fare la conoscenza di alcuni bambini di pochi mesi ospitati in ambienti puliti e ordinati, ma inadatti allo scopo.
In serata siamo ancora ospiti del parcheggio di un albergo, non lontano da Tirana che visiteremo l’indomani. Si organizza una cena insieme ed un dopo cena danzante. Dj: Luca, Martin e Raja, i giovanissimi del gruppo.
Oggi è ferragosto, ma in Albania è un giorno lavorativo come un altro e così anche
noi ce lo scordiamo mentre il pullman ci porta a Krujë, la città che ha dato i natali, nel 1405, a Giorgio Castriota, meglio conosciuto come Scanderbeg, eroe simbolo dell’indipendenza nazionale albanese.
La storia di questo personaggio è singolare. Figlio del signore di Krujë, avversario degli ottomani che avevano già conquistato l’Albania, fu da costoro catturato come ostaggio e portato alla corte di Adrianopoli, dove fu addestrato per diventare un guerriero al servizio dei Turchi. Per essi compì delle brillanti imprese militari che gli valsero il titolo onorifico di beg. Contemporaneamente gli fu cambiato il nome in Iskander (Alessandro). Da qui il soprannome Scanderbeg. Nel 1443 il Sultano lo inviò a combattere contro una coalizione di eserciti cristiani che aveva strappato la Serbia ai Turchi. Non si conoscono i motivi precisi, ma in quell’occasione in Scanderbeg avvenne un cambiamento radicale. Non solo favorì la sconfitta ottomana, ma con un gruppo di fedelissimi si riprese la città di Krujë e, in seguito, tutte le fortezze albanesi che erano cadute nelle mani turche. Durante i successivi venticinque anni, cioè fino alla morte, Giorgio Castriota Scanderbeg tenne testa agli eserciti mandatigli contro dal Sultano, senza mai subire una sconfitta.
La sua città, a ridosso dei monti settentrionali dell’Albania e ad una altezza di 600 sul livello del mare, lo ricorda con un grandioso Museo allestito nel Castello del 12° secolo, restaurato per l’occasione dalla figlia e dal genero del dittatore Hoxha ed  inaugurato nel 1982. All’interno non c’è nulla di autentico, nel senso che non ci sono oggetti appartenuti all’eroe; per esempio, la spada e l’elmo di Scanderbeg sono copie degli originali che si trovano in un Museo austriaco. Ci sono, però, tanti pannelli, disegni, quadri, statue, gigantografie di documenti ed un grande affresco, nella sala centrale che rimanda alle imprese militari di Scanderbeg e compagni. A disposizione dei visitatori è consultabile una raccolta di libri che si occupano del personaggio, stampati in diverse lingue.
Appena sotto il Castello si trova il Museo Etnografico in una bella casa ottomana del 1764. Appartenente ad una ricca famiglia ed abitata regolarmente fino al 1967, più che un museo sembra la dimora di una famiglia andata in vacanza. Tutte le stanze sono arredate con oggetti di uso quotidiano; alle pareti sono appesi gli abiti delle persone assenti, e le armi degli uomini, in un angolo i giochi dei bimbi, sui tavolini sono sistemate le tazzine del caffè. Nei magazzini e nelle cantine c’è l’attrezzatura per filare e tessere la lana, macinare il grano, conservare le olive. Tutto sembra pronto per essere usato all’occorrenza. La visita lascia una sensazione molto piacevole.
E dopo tanta cultura, un giro veloce per il bazar è un piacere che non si può negare. Nemmeno se a Tirana ci aspettano per un buon pranzo in un ristorante rustico-elegante che, dicono, sia frequentato dai vip locali.
Tirana fu fondata nel 1614, ma rimase un villaggio, o poco più, fino al 1920 quando fu proclamata capitale dell’Albania indipendente. Da allora cominciò a cambiare volto, ebbe un piano regolatore, furono abbattute le vecchie case per sostituirle con edifici più moderni, se non belli. La città si espanse fino a raggiungere gli attuali 726.000 abitanti che ne fanno la più popolosa del paese.
Il cuore è la grande piazza Scanderbeg. Concepita con i criteri urbanistici tipici dello stile fascista, risultò molto utile anche nell’epoca comunista per le manifestazioni del regime. Su questo grande spazio, al cui centro è stata posta la statua dell’eroe nazionale nella ricorrenza del cinquecentesimo anniversario della morte, si affacciano tutti i monumenti più significativi di Tirana: il Palazzo della cultura, la Torre dell’orologio con accanto la Moschea di E’them Bey, la cattedrale ortodossa, la Piramide ed il Museo Nazionale di storia.
Il Palazzo della Cultura è un edificio squadrato, senza fronzoli tranne un portico delimitato da colonne, costruito dal 1959 al 1963. Contiene il Teatro dell’opera e del balletto e la Biblioteca Nazionale.
Accanto si erge il Museo Nazionale di Storia, inaugurato nel 1981, riconoscibile per il grande mosaico che ne abbellisce la facciata. Il soggetto dell’opera sembra essere quello caro ai regimi comunisti (realismo socialista – il popolo combattente), invece rappresenta l’Albania dalle origini ai nostri giorni. È molto bello e molto colorato. Le collezioni spaziano dal paleolitico al medioevo, alla resistenza durante la seconda guerra mondiale, alla storia del periodo comunista.  Nel Museo si trovano esposte le opere provenienti da tutti i siti storici albanesi. Per esempio le statue di Butrinto, compresa una leggiadra testa di Apollo che per tanto tempo si credette essere una testa femminile. Poi il mosaico detto “La Bella di Durazzo”, un’altra copia della spada e dell’elmo di Scanderbeg, una bella collezione di gioielli.
Sul lato opposto della piazza, all’inizio di uno dei viali, si trova la moschea di E’them Bey, costruita tra il 1798 ed il 1821. Notevoli e ben conservati i fregi floreali che adornano la fascia sotto il tetto. Purtroppo, per noi, è in corso una cerimonia di fine Ramadan e non è possibile visitare l’interno.
Si termina il giro della piazza andando a dare un’occhiata esterna alla Cattedrale ortodossa e alla Piramide. Quest’ultima doveva essere contemporaneamente mausoleo e museo dedicato a Enver Hoxha, il personaggio che dominò l’Albania per trentanove anni. Dopo la caduta del regime, la Piramide fu abbandonata e, passato un certo periodo, si pensò di farne un Centro culturale internazionale.
La giornata termina con una gita in funivia al Dajti, un complesso turistico sulla cima di un monte che sovrasta Tirana. Lassù è bellissimo e fresco. Un’arietta frizzante riconcilia con la città, dove il caldo ha picchiato tutto il giorno. Poi c’è il verde delle pinete ed i colori dei fiori, ed infine uno splendido panorama sulla pianura e le montagne.
Di nuovo in viaggio. Siamo diretti sempre a nord, verso il Montenegro.  Oh, che bella sorpresa! C’è un’autostrada…. frequentata pure da pecore e ciclisti. Comunque dura poco, presto si trasforma nella solita strada a due corsie con il fondo più o meno grattugiato.

Ci risiamo. Tra Skodër e la frontiera montenegrina, circa trenta chilometri, ricompaiono le strade disastrate, le buche, la polvere, i segnali di lavori in corso senza nessun operaio in vista. Addio Albania, paese antico che ha ancora tanto cammino da fare per diventare moderno.
Attraversiamo il posto di confine senza problemi e ci addentriamo nel Montenegro. Il paesaggio è simile a quello settentrionale albanese: montagne, roccia, boschi, ma presto si nota che questo paese è meno abitato. Non si vedono né villaggi, né case sparse. Dopo aver fatto la spesa in un nuovissimo centro commerciale nella periferia di Podgorica, andiamo a parcheggiare i mezzi nella campagna desolata ai margini della città, davanti ad un albergo. Anche in Montenegro i campeggi sono sconosciuti, o quasi.
La visita alla capitale è prevista per l’indomani, non c’è nulla in programma fino ad allora. Come passeremo il pomeriggio in questo posto sperduto? Senza perdere tempo, Luca organizza una gita al lago di Scutari, la più grande distesa d’acqua dolce dei Balcani, amministrativamente divisa tra Montenegro ed Albania. Con soddisfazione di tutti si trascorre il pomeriggio su un battello che scivola sulle acque di questo lago dalle misure eccezionali: quarantatré chilometri di lunghezza per quattordici di larghezza e, per buona parte, sotto il livello del mare. Durante gli anni della Jugoslavia comunista, alcune delle isole che affiorano dall’acqua divennero luoghi di prigionia dei dissidenti del regime e dei sorveglianti costretti a vivere l’isolamento dei condannati.
La visita a Podgorica, la capitale del Montenegro voluta da Tito che la battezzò Titograd, salvo a ridiventare Podgorica nel 1990, inizia alla Cattedrale ortodossa della Resurrezione di Cristo. La costruzione iniziò nel 1993 e non è ancora terminata, poiché i lavori procedono con le offerte dei fedeli. L’esterno è bianchissimo, una luminosa pietra bianca che riflette la luce. L’interno, invece, è molto colorato, a cominciare dai marmi del pavimento che formano una serie di figure geometriche. Imponente è il Cristo benedicente su sfondo dorato, un’immagine che occupa tutto il catino dell’abside. Coloratissima anche l’iconostasi ed altrettanto le figure dipinte sulle pareti. Al piano inferiore un’ampia cripta è il luogo dove attualmente si svolgono i riti religiosi, mentre nella chiesa superiore proseguono i lavori.
Accanto al sagrato si trova il cimitero della comunità ortodossa. La disposizione napoleonica che ha allontanato i cimiteri dai luoghi abitati, qui non ha trovato ascolto.
Si procede la visita con uno sguardo al Ponte Millenium che scavalca il fiume Morača, un’opera inaugurata nel 2005 di cui i montenegrini sono molto fieri. Poi si entra nella Stara varos, il centro storico. Visitiamo una moschea del 1600, purtroppo rifatta parecchie volte ed anche bombardata durante la seconda guerra mondiale. Per inciso, Podgorica subì ben settanta bombardamenti. Ci fa da cicerone l’imam, che racconta la storia dell’edificio ed i concetti basilari dell’islam per spiegare perché l’interno delle moschee è tanto diverso da quello delle chiese cristiane.
La sensazione che coglie all’improvviso addentrandosi nel centro storico, è di essere finiti in un paese contadino. Scomparsi i nuovi condomini ed i viali, sparita la Cattedrale, siamo in stradine strette e tortuose, fiancheggiate da bianche case basse con piccoli giardini, orticelli e frutteti, tutte abitate. In questo ambiente fuori dal tempo e dallo spazio sta lo charme della vecchia Podgorica, che spero non venga mai a nessuno l’idea di demolire.
Però, basta salire i trenta gradini oltre il ponte a schiena d’asino che attraversa il letto del fiume Ribnica, al momento in secca, proprio sotto i resti di una Fortezza ottomana, per ritrovarsi nei larghi viali alberati percorsi dal traffico cittadino. Su uno di questi si affaccia il Parlamento della giovane Repubblica e vari Ministeri. Ci concediamo ancora una passeggiata lungo la via Hercegovačka, la strada pedonale più commerciale della città, ma non riusciamo a spendere nemmeno un euro. È troppo presto, i negozi sono ancora chiusi.
Altro fuori programma. Da una capitale all’altra, da Podgorica a Cetinje, la vecchia capitale di re Nicola, ultimo sovrano a regnare sull’aspro territorio del Montenegro. La visitiamo nel pomeriggio. Le due città non sono molto distanti, la prima è situata in pianura, la seconda a seicento metri di altezza, in mezzo a boschi fitti e secolari.
La fondazione di Cetinje iniziò nel 1482 per volere del principe Ivan Crnojevic che la fondò durante la sua fuga davanti all’incalzare dell’esercito turco. Due anni dopo, per esaudire un voto fatto alla Madonna di Loreto, egli cominciò la costruzione di un monastero che divenne importante poiché fu la sede del principe-vescovo del Montenegro. L’ennesimo attacco turco lo distrusse tre secoli dopo. Sulle sue rovine, nel 1886, sorse la Dvorska crkva (chiesa di Corte), graziosa costruzione in pietra con una bella iconostasi dorata. Oggi accoglie le tombe di re Nicola e della moglie la regina Milena, morti in esilio in Francia, sepolti in un primo tempo in Italia, a Sanremo, ed alla fine tornati in patria. Dell’antico monastero rimangono le tracce perimetrali e quattro colonne davanti alla chiesetta. Sui sarcofagi reali sono posati dei fiori legati con un nastro tricolore. È l’omaggio della Guardia d’onore del Pantheon di Roma a coloro che furono i genitori della regina Elena e quindi i suoceri di Vittorio Emanuele III, penultimo re d’Italia.

La distruzione del monastero non indebolì l’animo dei montenegrini. Anzi, in breve tempo essi ne costruirono un altro più grande, proprio di fronte alle rovine del vecchio. E lo ricostruirono per la terza volta dopo l’ennesima distruzione. I monaci ortodossi che lo abitano consentono la visita alla chiesa dedicata alla Natività della Vergine ed al piccolo museo. Queste mura conservano delle reliquie preziose per la cristianità: la mano di San Giovanni Battista ed un frammento della Croce.

A breve distanza dal monastero si trova la Biljarda, una bella casa in pietra del 1838 che fu la residenza di Njegoš, poeta, filosofo, guida spirituale e politica del paese. Il bizzarro nome della casa deriva dal fatto che, all’epoca, era l’unica in cui ci fosse un biliardo che Njegoš aveva portato da Vienna. Oggi è il Museo che raccoglie e mette in mostra i ricordi e le opere del personaggio.

Dall’altra parte della città sorge il Palazzo Blu in cui abitava il Principe erede al trono. È un elegante palazzo realizzato nel 1895 da architetti italiani e montenegrini ed è diventato una residenza del Presidente della Repubblica,

A questo punto il gruppo si divide. Chi va con la guida a vedere il Museo Storico, chi preferisce passeggiare tra i giardini e le piante secolari dei parchi, oppure nella strada centrale curiosando qua e là, tanto è difficile perdersi a Cetinje, la città è piccola, conta appena 15.000 abitanti.

La tappa del giorno dopo è la località balneare più chic del Montenegro: Budva. Ci arriviamo dall’alto della montagna che le sta alle spalle. Il panorama che attira lo sguardo all’improvviso, alla fine di una curva, lascia senza fiato. Parecchi metri in basso, tra le rientranze della costa, ai piedi di monti coperti da una fitta vegetazione, si stende la bianca città di Budva con i suoi dintorni. È una vista incantevole. Si distingue nettamente la Stari Grad (città vecchia) che si protende solitaria in mezzo ad un mare blu come il cielo. Poco distante dalla riva l’isola San Nicola, un bosco in mezzo all’acqua, è simile ad una sonnolenta tartaruga che si gode il sole.
Appena sistemati al campeggio (il primo che incontriamo durante il viaggio) partiamo con il pullman per le Bocche di Cattaro, le Boka Kotorska in lingua locale. Mentre la strada lascia la costa per infilarsi in mezzo ai monti, Svetlana, la guida, racconta alcune cose del suo paese giunto all’indipendenza soltanto nel 2006. Per esempio della situazione economica precaria, dei bassi stipendi¸ della difficoltà di trovare lavoro, di Budva diventata una località piena di Russi, tanto da istituire una scuola apposta per i loro figli, del referendum che ha sancito il distacco indolore dalla Serbia. Però, ad una domanda su un personaggio montenegrino che fu il braccio destro di Tito per moltissimi anni, prima di diventarne l’oppositore, confessa candidamente di avere sentito il nome, ma di non saperne nulla. Allargando il discorso sui fatti della loro storia del secolo scorso, ne ricavo la sensazione che di quel tempo non lontano i giovani ne sappiano poco e gli anziani non abbiano voglia di raccontare.
A Kotor, la località più grande sulle rive di questo fiordo meridionale lungo ventotto chilometri, attrae subito l’attenzione la robusta è ben conservata muraglia che, partendo dal mare, si arrampica sui monti per poi discendere dalla parte opposta, in modo da proteggere completamente la città, sia dal mare che dalla terra. Sul punto più elevato del percorso, la cui lunghezza complessiva raggiunge i quattro chilometri e mezzo, si trova il forte di San Giovanni. La posizione è strategica per tenere sotto controllo un vasto territorio.
Si entra nel nucleo storico dalla Porta Marina, eretta durante gli anni della dominazione veneziana. È facilmente riconoscibile perché sul frontone c’è una grande scritta nera su fondo bianco. È una data: 21/XI/1944, il giorno della liberazione dai Tedeschi. I palazzi all’interno della cinta muraria sono quasi tutti di pietra bianca, ricostruiti dopo i terremoti del 1667 e del 1865. Sulla piazza delle Armi, alle spalle della Porta, si trova la Torre dell’orologio con davanti la gogna, il Palazzo dell’Arsenale, il Teatro voluto da Napoleone Bonaparte (ebbene sì, arrivò fin qui) ed il Palazzo Ducale, edificio che occupa quasi interamente un lato della piazza.
All’angolo della Piazza delle Armi con la strada che porta alla Piazza della Farina, così chiamata perché nei tempi andati c’erano i magazzini della farina, si osserva  il Palazzo Bizanti, la cui costruzione risale al 14° secolo, ma l’aspetto attuale si deve  alla ricostruzione successiva al terremoto del 1667.
Più avanti s’incontra Palazzo Beskuca, nome che tradotto significa “senza casa”. Una leggenda racconta che Jozo Beskuca, nominato conte, proclamò di voler possedere cento palazzi per poter cambiare il suo nome in Stokuca (cento case). Non ci riuscì mai. Della famiglia Senzacasa è rimasto questo palazzo abbastanza semplice, tranne il portale riccamente decorato.
Sulla Piazza della Farina altri due palazzi degni di nota: Palazzo Pima e Palazzo Buca. Il primo ha una bella facciata movimentata da un’ampia terrazza che sovrasta il portale d’ingresso, sopra il quale è posto lo stemma della famiglia Pima sorretto da due angeli. Il secondo, la cui facciata piatta sembra voler dare maggior risalto a Palazzo Pima, gli sta di fronte. Appartenne ad una ricca ed illustre famiglia di Kotor che lo fece costruire nel 1300, però i vari rifacimenti e restauri non hanno lasciato nulla del palazzo gotico originario.
In una piazzetta raccolta, poco distante, dove ha sede il Comune e l’Archivio storico, si trova la Cattedrale cattolica dedicata a San Trifone e l’annesso Museo. Due parole su questo Santo sconosciuto ai più. Trifone, o Tripun in lingua serbo-croata, nacque in Asia Minore.  Era un pastore che fu torturato e decapitato in giovane età per aver rifiutato di abiurare la fede cristiana. Il 3 febbraio 809 gli abitanti di Cattaro ne comprarono le reliquie dai Veneziani e lo elessero a loro protettore, costruendo la prima chiesa in suo onore. Alterne vicende nei secoli, trasformarono l’edificio nel bel tempio in preziosa pietra di Korcula che vediamo oggi. Nell’interno, molto luminoso, sono conservate le reliquie del Santo, cioè la testa ed una parte del corpo. Interessante la visita al museo, sia per le ricche collezioni (quadri, statue, una drammatica Pietà, ostensori, candelabri, ecc.), sia per la collocazione di ampie vetrate che permettono una bella vista dall’alto sull’interno della chiesa.
Affacciata su un’altra piazza (pare che la piccola Kotor ne conti ben dodici), si trova l’antica chiesa di San Luca, molto curata all’interno, ma con un bisogno urgente di ripulitura della facciata. La sua fondazione come chiesa cattolica risale al 1195. Dopo la guerra contro i Turchi si trasformò in chiesa di rito serbo-ortodosso, però per un certo periodo fu usata alternativamente da entrambe le confessioni. Per questo motivo  la piccola chiesa possiede due altari. Il resto è abbastanza modesto. Qualche traccia di affreschi del 16° secolo, l’iconostasi, un pavimento quasi tutto composto da lastre tombali, una cappella dedicata a San Spiridione.
Più imponente e con una iconostasi luccicante di ori è l’attigua chiesa di San Nicola. Anche questo edificio, eretto dal 1902 al 1909, era destinato al culto cattolico. Dopo un certo periodo, considerato l’aumento della popolazione di fede ortodossa e la conseguente diminuzione dei fedeli cattolici, fu destinato a quel culto.
Ancora una chiesa, questa volta cattolica, dedicata a Santa Maria del fiume ed alla Beata Osana. Si chiamava Caterina ed era nata nel 1493 in una povera famiglia di fede ortodossa. Inviata a fare la domestica a Kotor, conobbe il cattolicesimo e si convertì, diventando successivamente una suora domenicana con il nome di Osana. Visse in clausura per cinquantuno anni. Morì a Kotor il 27 aprile 1565 e fu sepolta nella chiesa che oggi espone il suo corpo mummificato in una teca.
Dopo il pranzo c’imbarchiamo per una gita nelle Bocche. Destinazione? Un’altra chiesa che occupa un intero isolotto in mezzo alle acque. Mentre il battello corre veloce verso la meta ed io osservo le alte montagne che sprofondano nel mare, i paesetti che si allungano sulle rive, non avendo la possibilità di espandersi sulle alture impervie, mi sorprendo a riassumere il Montenegro in tre colori: il verde cupo della folta vegetazione, il blu profondo del mare ed il bianco delle case, dei paesi e… della scia che lascia il battello.
Il Santuario della Madonna dello Scarpello sorge su un’isola artificiale e tutto quanto, isola e santuario, sono il frutto di un voto e della mano dell’uomo. Si racconta che due fratelli, uno dei quali gravemente ammalato, il 22 luglio 1452 trovassero in mare una tavola su cui era dipinta una Madonna col Bambino. Il fratello ammalato rivolse le sue preghiere a questa immagine e guarì. Fece voto di costruire una chiesa nella quale custodire la preziosa icona e, a tale scopo, scelse una roccia che sporgeva dalle acque. In dialetto locale “scarpel” è il nome comune di tutte le forme rocciose che emergono. Questo scarpel era troppo piccolo, quindi cominciarono a portare pietre, sassi, fasciame di barche e velieri affondati, per creare uno spazio sufficiente a costruire la prima chiesetta. Il lavoro di riempimento e contenimento continuò ininterrottamente fino a poter erigere l’attuale chiesa, la qual cosa avvenne dopo che il più volte nominato terremoto del 1667 distrusse la precedente. Ancora oggi, tutti gli anni il 22 luglio, le imbarcazioni piene di sassi partono da Perast dirette all’isola della Madonna.
Il luogo è molto suggestivo, la chiesa è piccola, ma graziosa. Sull’altare la tavola della Madonna incorniciata in una molto barocca cornice di marmo, o pietra bianca, in alto un bel soffitto a cassettoni, sulle pareti gli ex voto ed i mazzi nuziali che le spose lasciano per buon augurio. Accanto alla chiesa è possibile visitare un piccolo museo archeologico.
La barca ci riporta a terra nel comune di Perast, dove verrà a prelevarci il pullman. C’è ancora tempo per una passeggiata, un bagno, un sosta al bar, poi si rientrerà a Budva. Dopo una giornata così intensa, niente di meglio che una bella tavolata tutti insieme e poi un tuffo nella Budva by night, una passeggiata lungo il mare e la spiaggia sabbiosa ascoltando la musica che esce dai tanti locali.
La mattina successiva si rifà la strada per le Bocche di Cattaro, questa volta con i nostri camper. Qui giunti saliamo su un traghetto che, portandoci dall’altra parte, ci farà risparmiare una quarantina di chilometri di strada tortuosa.  
Frontiera Montenegro-Croazia. Transitiamo velocemente e ripiombiamo nell’incubo “strada albanese”, cioè sterrato, polvere e buche per lavori in corso, presunti, perché non si vedono né operai, né macchine al lavoro. Per fortuna saranno due-tre chilometri soltanto, poi il cammino verso Dubrovnik scorre liscio fino al campeggio.
Il primo incontro con la “città della quercia” (Ivana, la guida che parla un ottimo italiano, ci dice che questo è il significato del nome Dubrovnik), avviene dall’alto dei monti che dominano la baia. È un’immagine da sogno che riempie gli occhi ed allarga il cuore. Fin dove arriva lo sguardo è acqua e alture, un susseguirsi di cime che si rincorrono sulla riva del mare sul quale si dondolano pigri degli yacht bianchi. Visti da quassù sembrano giocattoli per bambini. In fondo alla baia si distingue l’antica Ragusa protesa nell’acqua e ben protetta dalle possenti mura.
Si entra nella città vecchia dalla Porta Pile, accanto al Bastione San Lorenzo. A destra  si trova la Fontana Grande di Onofrio, monumentale erogatore di acqua pubblica a partire dal 15° secolo. Dubrovnik la deve all’ingegno di un napoletano di nome Onofrio, che portò l’acqua da un pozzo distante venti chilometri.
Da questo punto inizia lo Stradun, la strada principale che attraversa tutto il centro storico, costruita sul canale che un tempo divideva la città romana da quella slava. Da Porta Pile alla Piazza della Loggia sono trecento metri di bellezza ed eleganza, molto stile veneziano. Una sfilza di palazzi, chiese e conventi costruiti dopo il disastroso terremoto del 1667 a margine di un’ampia strada, lastricata di pietre lucidissime per i tanti passi che le hanno calpestate.
Ci portiamo al Convento di San Francesco mentre Ivana racconta la storia di Dubrovnik, dai tempi lontanissimi in cui aveva nome Epidauros, trasformato in Epidaurum in epoca romana, divenuto Ragusa quando era una ricca repubblica marinara che infastidiva Venezia con i suoi traffici. Napoleone Bonaparte abolì la repubblica e, alla caduta del Francese, la città finì agli Asburgo. Fu chiamata Dubrovnik dopo l’assegnazione alla Jugoslavia alla fine della prima guerra mondiale.
Del complesso gotico precedente il terremoto sopra citato, alla chiesa di San Francesco è rimasto soltanto il portale d’ingresso, sormontato da una Pietà. Bellissimo il chiostro con una doppia fila di colonne. Insolito il capitello che mostra il viso di un personaggio, probabilmente un mecenate, deformato da un probabile mal di denti. Il massimo del realismo! Su una parete, sotto le lunette affrescate, è dipinta Dubrovnik com’era prima del terremoto; su un’altra è scolpito nella pietra lo stemma della fu Repubblica marinara. Il piccolo Museo allestito nei locali del convento, la ricca Biblioteca e l’antica Farmacia, mettono in mostra delle cose interessanti: oggetti di rito in argento, bellissimi gioielli, un grande Crocifisso con intarsi di madreperla, antichi libri e spartiti musicali, vasi di varie dimensioni provenienti da Faenza.
Prima di fermarsi su quel concentrato di storia ed arte che è la Piazza della Loggia, arriviamo fino al vecchio porto ed oltre, uscendo dalla città dalla Porta Ploce. Da questo punto la vista scorre per un tratto lungo le mura ed i bastioni e sui tetti rossi di Dubrovnik.
Ed eccoci alla Piazza della Loggia. Su un lato si erge la Chiesa di San Biagio, protettore della città. Fu costruita da un architetto veneziano tra il 1705 ed il 1717 per rimpiazzare un edificio distrutto da un incendio. L’interno conserva parecchi resti della chiesa precedente; sull’altare maggiore una luccicante statua di San Biagio in argento dorato.
Alle spalle della Chiesa di San Biagio si trova la Cattedrale dedicata alla Vergine. Si dice che il primo tempio costruito in questo sito nel 1192 sia stato innalzato per volere di Riccardo Cuor di leone, quale ringraziamento per essere tornato indenne da una Crociata. La chiesa fu completamente distrutta dal terremoto del 1667 e riedificata in sobrio stile barocco da un architetto italiano. L’interno, bianco e luminoso, ospita opere del Padovanino, di Andrea del Sarto ed una Assunzione attribuita a Tiziano. In una sfarzosa cappella sono esposte delle reliquie di San Biagio ed un frammento della Croce, conservate in teche d’oro, argento e filigrana.
Di fronte alla chiesa di San Biagio è la facciata del Palazzo Sponza che alloggiava la dogana. Un luogo importante per i commerci della Repubblica.
Un lato della Piazza della Loggia è occupato dalla Torre dell’orologio con le fasi lunari e dal Palazzo del Rettore dal bel porticato a colonne. Era questa la sede del potere politico. Il Rettore era eletto dai cittadini e durava in carica un solo mese (così non aveva tempo di fare intrallazzi). Il piccolo cortile è quasi soffocato da una maestosa scalinata che sale al primo piano dove si trova l’appartamento affacciato sulla piazza. Le stanze sono tutte arredate con mobili e lampade del ‘700, quadri di varie scuole europee, ma soprattutto italiane, un bellissimo secretaire dipinto da Luca Giordano.
Le bellezze di Dubrovnik non sono tutte qui, però ci vorrebbe più tempo di un solo pomeriggio. Noi non l’abbiamo. Domani si parte per la Bosnia.
Siamo di nuovo una lunga colonna di camper che sfila sulla strada litoranea croata, molto fotogenica sotto il sole radioso; sullo sfondo del mare piatto qualche barca solitaria movimenta la scena. Tutt’altro movimento sulla strada. Lasciata Dubrovnik, dopo pochi chilometri si esce dalla Croazia per entrare in Bosnia. Una manciata di chilometri e ne usciamo per rientrare in Croazia. Altri venti chilometri e di nuovo la frontiera bosniaca. Sembra un gioco a rimpiattino che doganieri comprensivi facilitano.
Siamo diretti ad un Autocamp di Medjugorie, ma prima di arrivarci bisogna scavalcare le montagne che si frappongono tra la costa ed il paese. Su, su, su, fino a scoprire tutta la valle dalla quale abbiamo iniziato la salita, poi un pezzo di altopiano, quindi giù nella conca dove si trova la località diventata famosa oltre trent’anni fa per fatti inspiegabili dalla ragione.
In pullman, nel pomeriggio, ci dirigiamo oltre Mostar per vedere il luogo dove sorge il monastero derviscio di Blagaj, costruito nel 1520 in uno stile che amalgama quello ottomano con quello mediterraneo. In fondo ad una valletta defilata, la bianca figura dell’edificio, addossata ad una parete di roccia di colore giallo-grigio, talmente perpendicolare da sembrare tagliata dalle mani dell’uomo, è molto suggestiva. Davanti al monastero scorre il fiume Buna, appena nato in una grotta vicina.
Per visitare Mostar torniamo indietro di pochi chilometri. La città è situata sul fiume Neretva che la divide in due parti: a sinistra vivono i bosniaci (musulmani), a destra i croati (cattolici), i serbi (ortodossi) e gli ebrei. È una divisione avvenuta alla fine della guerra che aveva coinvolto Bosniaci, Croati e Serbi.  I centomila abitanti non si notano, avendo Mostar una forma molto allungata ai piedi di un massiccio roccioso e quasi senza vegetazione.
Il panorama è caratterizzato da un alto (120 metri) ed affusolato campanile. È quello della chiesa di San Francesco, vicino alla quale ha parcheggiato il pullman. Nel breve percorso verso il centro storico si notano ancora, sui muri delle case e dopo vent’anni, i segni lasciati dalla guerra combattuta negli anni novanta del secolo scorso. Si possono contare i buchi che sono stati richiusi con cemento e non stuccati, né dipinti. Scene simili si erano già viste lungo la strada per arrivare in città, con in aggiunta i grandi cimiteri sparsi nella campagna che suggeriscono il senso dell’urgenza di trovare un posto dove seppellire i morti per fatti di guerra.
La vecchia Mostar è un piccolo centro di aspetto ottomano: case basse e bianche, finestre piccole, vicoletti, una sola strada degna di questo nome trasformata in bazar, dove le stoffe colorate sventolano all’aria smossa dalla ressa dei turisti, italiani in primo piano. Sono molto belli i disegni dell’acciottolato fatto con i sassi del fiume. È un artigianato artistico che la confusione non permette di godere in pieno.
Ed ecco il famoso ponte, simbolo di Mostar, distrutto da un colpo di mortaio il 9 novembre 1993. Nell’anno 2004 ne è stata completata la ricostruzione utilizzando, in buona parte, il materiale recuperato dalle macerie del vecchio ponte. All’interno di una ex moschea si può vedere un filmato che mostra le varie fasi della ricostruzione.
Mostar antica è tutta qua. Piena di gente, piena di bancarelle colorate che, più o meno, vendono le stesse cose, piena di una impalpabile malinconia, malgrado il sole che fa esaltare i colori.
Come da programma dovrebbe seguire una giornata libera. Invece no. Il solerte Luca ha organizzato, per la mattina, una salita a piedi al luogo delle apparizioni. La maggior parte aderisce. Altri preferiscono riposare. Alla stanchezza del viaggio, che comincia a farsi sentire, si aggiunge il caldo veramente notevole di Medjugorie,  situata in una posizione geografica piuttosto chiusa.  
Dopo il pranzo al ristorante, Luca ci offre un altro fuori programma: una gita alle cascate di Kravica, a un quarto d’ora di pullman da Medjugorie. Il mare è lontano e la piscina naturale, formata dall’acqua che precipita dalle rocce da un’altezza di venticinque metri, è piena di gente che sguazza. Siamo in mezzo ad un bosco dove c’è frescura anche per chi sta soltanto a godere l’ombra degli alberi.
È giunto l’ultimo giorno del viaggio. Oggi la città da visitare è un mito ed un simbolo: Sarajevo. Città multireligiosa e multiculturale, babele di lingue (serbo, croato, serbo-croato, turco) parlate dalle varie etnie che, in tempi non lontani, si sono combattute aspramente ed ora sembrano vivere insieme in pace. Città il cui biglietto di presentazione è un cimitero. Mi riferisco alle tombe, tante, viste ai margini della strada che ci ha portato fino a questa città.
La periferia di Sarajevo ci viene incontro con palazzi di nuova costruzione e case moderne; mi meraviglio di non vedere i blocchi di stile sovietico, comuni ed identici in tutte le periferie delle città dell’Europa dell’est. Forse sono stati rasi al suolo, oppure qui non sono mai esistiti. La Bosnia-Herzegovina era considerata tra le repubbliche jugoslave più povere.
Man mano che si penetra nella città si ritrovano i segni evidenti lasciati da una guerra lunga quattro anni. Sarajevo si stende in una piana circondata da verdi colline. Sulle alture spuntano, tra gli alberi, delle piccole case; in basso, lungo il fiume Miljacka, emergono tra le case le sagome di moschee e campanili.
Incontriamo Vedran, la guida odierna, davanti alla Biblioteca Nazionale alloggiata nell’ex Palazzo del Governo austroungarico. Malgrado le impalcature che la ricoprono per i lavori che ripareranno i danni subiti dal bombardamento del 25 agosto 1992, si nota la maestosità di un bel palazzo di stile moresco e dai colori caldi.
Da questo punto comincia la scoperta di Sarajevo introducendoci nel vecchio quartiere di Bashir. Un tempo era la zona del mercato, oggi è un’area commerciale dall’aspetto molto turco, piena di negozietti di tutti i generi. L’aspetto orientale del luogo è sottolineato dalle tante donne che indossano abiti di foggia orientale.
Sulla via principale si affaccia l’ingresso di quello che fu il Caravanserraglio, il cui cortile interno è diventato una gradevole piazzetta con negozi e bar. Più avanti si trova la moschea di Gazi Husref Bey risalente al 16° secolo, con annessa madrasa. È considerata l’architettura islamica più importante della Bosnia ed è realmente un bellissimo edificio di pietra bianca con un ampio cortile sul davanti, abbellito da una fontana.  Fu costruita su progetto di Minar Sinai, famoso architetto di Solimano il Magnifico. Non è concessa la visita all’interno, del resto, osservando il pannello accanto al cancello di entrata su cui sono chiaramente disegnati tutti i divieti per l’accesso alla moschea, compreso quello di non avere armi con sé, sicuramente saremmo incappati in qualcuno.  
Vedran ci fa trotterellare verso la Torre dell’orologio, poi al primo bagno pubblico  costruito in epoca ottomana, quindi, passando davanti all’attuale mercato, ci mostra dove durante l’assedio caddero le bombe che uccisero parecchie persone, la cui sola colpa era di essere al mercato per fare la spesa.
Svoltando l’angolo della strada si arriva ad un altro sito tristemente storico, questa volta per l’intera Europa e non solo. Una targa ricorda, con poche essenziali parole, che il 28 giugno 1914 in quel luogo furono uccisi l’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando e la moglie Sofia. Il fatto fu la miccia che fece scoppiare la prima guerra mondiale.
Al primo piano di un palazzo di fronte è stato allestito il Museo dell’assedio. Tra i cimeli, un filmato raggruppa i momenti salienti dei quattro anni, dal 1992 al 1996, durante i quali Sarajevo fu un campo di battaglia assediato. Sono immagini che tanti di noi hanno visto trasmesse dai telegiornali nei giorni in cui avvenivano i fatti. Vederle oggi e raggruppate in sequenza, oltre a risvegliare i ricordi, fa comprendere tutto il dramma di una vicenda assurda e terribile.
Si continua la passeggiata nella Sarajevo austro-ungarica. Questa zona sembra un angolo di Vienna per i bei palazzi che fiancheggino una via larga. Ed è in questo quartiere che verso la fine del 1800 fu eretta la Cattedrale cattolica del Cuore di Cristo in stile neo-gotico, come andava di moda allora.
Prima di rientrare ai camper rimane il tempo per pranzare, per visitare il bazar ed i tanti negozietti ( bellissimi e luccicanti quelli della Strada del rame) e, magari, tornare a vedere con calma qualcosa già visto la mattina.
Sarajevo è intrigante. In nessun posto come in questa città l’Europa incontra l’oriente mescolando stili, immagini e sensazioni e, nello stesso tempo, tenendoli in qualche modo separati. Nell’aria si possono cogliere gli odori tipici di un bazar turco e, poco più in là, vivere l’ordine e la perfezione di una città austriaca. Vienna accanto ad Istanbul, le donne velate e quelle vestite all’occidentale, senza essere turiste, riempiono le stesse strade, gli stessi negozi.
Alla sera ci aspetta una sorpresa. Il proprietario dell’Autocamp di Medjugorie offre la cena a tutto il gruppo. È bello stare insieme l’ultima sera, anche se tra l’allegria di ritrovarsi allo stesso tavolo, commentare il viaggio che si sta concludendo, confrontare i pensieri e le sensazioni, serpeggia già un velo di nostalgia. L’indomani mattina ognuno prenderà la strada di casa ed anche se per un certo percorso potrebbe essere la stessa, ci sono i diversi orari della partenza che impediranno il ricostituire la carovana dei camper. Ed è comprensibile che qualcuno voglia dormire un po’ di più del solito. Nelle due settimane di tour i nostri inflessibili capi, Luciano e Luca, spesso ci hanno fatto fare le levatacce. Però, e bisogna riconoscerlo, avevano ragione e tutti noi lo sapevamo, anche se fingevamo di mugugnare. Faceva parte di una recita giornaliera.
È stato un bel gruppo di persone cordiali, puntualissime agli appuntamenti, allegre e disponibili, con le quali è stato facile instaurare dei rapporti. Un ringraziamento a Luciano, il gentilissimo e paziente capogruppo, per il lavoro svolto quotidianamente, per l’attenzione costante a  tenere unito il gruppo e a risolvere gli eventuali piccoli problemi che si presentavano sul momento. A Luca, rappresentante di “Io viaggio in camper”, l’agenzia organizzatrice del viaggio, e qui credo di esprimere il pensiero di tutti i partecipanti, siamo riconoscenti per tutti i fuori programma che hanno consentito di conoscere ancora meglio il paese che stavamo visitando. A entrambi va poi un ringraziamento particolare dai proprietari delle tre mascotte, i tre cani Arturo, Sally e Yeleen                                                                            

Graziella Vignazza Santi